Archivi del mese: Maggio 2012

Condivisioni Sulla Carta

Se la carta stampata ha da sempre il vantaggio della condivisione di lettura, come testimoniano banalmente i quotidiani nei bar la cui fruizione della singola copia è da parte di molte persone, ora è possibile condividere le proprie riviste preferite anche in Rete.

E’ da questo mese on line infatti Magpile, un social network per appassionati di riviste. L’idea è simile a quella di Goodreads ma al posto dei libri sono i magazine protagonisti. Allo stato attuale la maggior parte delle testate sono inglesi ed europee, se la rivista è già presente è possibile impilarla  all’archivio esistente, in alternativa è possibile aggiungerla creando un nuovo archivio dedicato.

Le riviste possono essere anche inserite nella propria wishlist, lista dei desideri. Al momento la testata più popolare, più caricata e condivisa è «Monocle», [quasi] mensile britannico. Ovviamente, come avviene in ogni social network, è possibile seguire altre persone, commentare e discutere relativamente alla pubblicazione ed ai temi proposti.

Offscreen, nuova rivista dedicata al mondo del web ed alle app, e Stack, editore di riviste “indipendenti”, le prime imprese a credere nel network ed a promuoversi pubblicitariamente al suo interno.

Magpile, a mio avviso, è una proposta interessante che potrebbe sorprendere per il successo che ottiene poichè, come risaputo, vi sono testate, di nicchia o meno, che hanno una folta schiera di collezionisti, di persone che conservano le copie delle riviste, e ancorpiù nell’ambito dei comics,  dei fumetti, preferite. La possibilità di trovare il numero mancante e di relazionarsi con persone appassionate alla stessa pubblicazione, e dunque, probabilmente, con i medesimi interessi mi appare un’idea sensata e vincente.

Accordi commerciali con gli editori per incentivare la sottoscrizione di abbonamenti potrebbero, altrettanto, risultare il modello di business che nel tempo offra dei ritorni degni di questo nome, più che i ricavi della pubblicità.

La risposta “social” alle fallimentari iniziative di edicole virtuali collettive sin qui realizzate. La conferma di come ora anche per i social network il futuro sia incentrato sulla verticalizzazione, sulla specializzazione per contenuti e relativi interessi.

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Le Tendenze della Pubblicità Online

Google detiene circa il 50% del mercato pubblicitario online. Un dominio a cavallo tra abuso dominante ed eccellenza di mercato che continua a creare problemi all’azienda di Mountain View anche nel rapporto conflittuale con gli editori. Relazione che Google cerca di migliorare con diverse iniziative a sostegno, o almeno di supporto, del comparto editoriale, provando a smentire la fama di vampiro, di parassita dell’industria dell’informazione.

E’ in questa logica che deve essere considerata la pubblicazione di “Display Business Trends: Publisher Edition”, rapporto pubblicato ieri che rende disponibili, in forma aggregata, i dati relativi a miliardi di impression raccolti da Google attraverso DoubleClick for publishers, DoubleClick ad exchange e, ovviamente, Google AdSense network. I dati pubblicati si riferiscono al 2011.

Il rapporto è di estremo interesse ed analizza e classifica i contenuti verticali, per tipologia di argomento, sulla base delle ad impression e dei CPM. Fornisce un panorama davvero completo delle tendenze della pubblicità online analizzando formati display, nazioni [Italia inclusa], Web in mobilità e formati video.

I dati relativi alle categorie evidenziano una buona dinamicità del comparto delle notizie [+18% a livello mondiale] anche se inferiore ad altre tipologie quali, uno per tutti, shopping. E’ il segmento della salute a spuntare il CPM più elevato a circa la metà complessivamente quello delle news. Il calo delle comunità online, nella mia interpretazione, è dovuto allo strapotere di Facebook ed alla relativa raccolta pubblicitaria effettuata dallo stesso.

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Tra le nazioni sono gli Stati Uniti a guidare la classifica dei Paesi con il maggior numero di impression seguiti dalla Cina. Non è un fattore escusivamente demografico come dimostra la quota del 2,5% del totale dell’India.

In Europa la nazione con il maggior peso è la Germania con una quota del 4,9% del totale, seguono Francia e Gran Bretagna  rispettivamente con il 4,8% ed il 4,2%.

L’Italia mostra la sua debolezza anche in questo caso con solo il 2,1%, inferiore a Spagna [3,1%], Polonia [2,5%], Olanda [2,4%] e perfino della Turchia, nazioni che per demografia o sviluppo economico dovrebbero avere un peso inferiore; la conferma di quanto debole sia ancora la Rete nel nostro Paese.

Ad abundantiam l’Italia è una delle nazioni con il CPM più basso ed una tendenza negativa del suo valore: – 8% rispetto all’anno precedente. L’ennesima conferma che la pubblicità non può bastare a tutto ciò che serve al giornalismo e che è necessario andare oltre i CPM per quanto riguarda l’industria dell’informazione.

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In termini di formati sono il mastehead, il display da 728 x 90 in testa alla pagina, e il medium rectangle, il rettangolo da 300 x 250, a fare il 65% del mercato. In calo tutti i formati piccoli, esplosione del mobile che però pesa solo l’1% del totale. Sempre in riferimento al Web in mobilità sono shopping e food & drinks, dunque ristoranti e bar, a registrare il maggior numero di impression, molto modesto quello delle notizie; la conferma delle grandi potenzialità per gli esercizi commerciali di questa tipologia di pubblicità e, altrettanto, di quanto per l’industria dell’informazione la mobilità sia più una minaccia che un’opportunità almeno dal lato della raccolta pubblicitaria.

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Il rapporto di Google costituisce una base preziosa di informazioni sul mondo della pubblicità online, supporto importante nella ricerca di un nuovo equilibrio per l’ecosistema informativo, che appare davvero difficile per quanto riguarda l’Italia come dimostrano anche le difficoltà delle start up all digital nel nostro Paese. Continueremo a lavorarci sopra.

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Chiuso & Antisocial

All’interno della mia colonna settimanale per l’ European Journalism Observatory prosegue la serie di case studies sulle principali testate giornalistiche europee.

La case study di questa settimana di analisi dell’approccio e dei risultati relativi dei principali quotidiani europei è inerente al principale concorrente, almeno in patria, del «The Guardian» analizzato la scorsa settimana: «The Times», anch’esso quotidiano generalista britannico che però ha una strategia completamente distinta.

Buona lettura.

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Earned Media & Gamification

I dati del report della Nielsen: “Global Trust in Advertising and Brand Messages”, pubblicati a metà dello scorso mese, hanno confermato per l’ennesima volta come tra tutti i mezzi siano gli earned media ad essere indubbiamente il veicolo più potente, con raccomandazioni di conoscenti ed opinioni di gente comune a guidare la classifica della fiducia assegnata dalle persone a questi tra tutte le modalità di comunicazione e di influenza possibili.

Ma come, in chiave di comunicazione d’impresa, è possibile influenzare, o almeno facilitare, le raccomandazioni spontanee? Quali azioni sono più funzionali all’ obiettivo?

Prova a dare una risposta a queste domande cruciali lo studio realizzato da Wildfire: “Five Best Practices For Increasing Earned Media”. La desk research ha analizzato 10mila campagne promozionali condotte su Facebook negli ultimi nove mesi suddividendole in nove tipologie: concorsi a premi, coupons, campioni/omaggi, video, foto, concorsi di scrittura, quiz, trivia [altro format di quiz ispirata dal celebre gioco: trivial pursuit] e “scegli il tuo favorito”.

I risultati evidenziano che le azioni che hanno un maggior numero di partecipanti e quelle che meglio funzionano, che sono maggiormente condivise dalle persone e dunque favoriscono la propagazione della comunicazione, vi è una notevole differenza. Confermando lo scarso valore di per se stesso del numero di followers/fans; un dato che da solo dice davvero poco sull’efficacia delle azioni di social media marketing e sul valore della reputazione aziendale.

Come evidenzia il grafico di sintesi sottoriportato, le persone partecipano maggiormente, anche sul celebre social network, ad azioni con modalità promozionali canoniche, standard, quali concorsi a premi, coupons e campioni/omaggi. Un dato che era emerso già in precedenza ma che in realtà offre una visione esclusivamente quantitativa e non qualitativa di ciò che realmente funziona.

Le modalità promozionali che sono maggiormente condivise, favorendo maggiormente il passaparola ed allargando così l’audience, il pubblico, esposto al messaggio è di ben altra natura. Sono “scegli il tuo favorito”, quiz e trivia, rispettivamente con il 39%, 32% e 29% di condivisioni le azioni che ottengono maggior successo. Modi che, non posso esimermi dal sottolineare, sono tutti riconducibili al gioco ed al concetto, nel senso più ampio del termine, di gamification.

Ho evidenziato più volte come il gioco soddisfa motivazioni sociali, coinvolge, crea un senso di comunità spingendo alla condivisione dei contenuti. I vantaggi della gamification: socialità, competenza ed autonomia, seppur ad un livello primordiale, sono ora ulteriormente confermati.

A margine si segnala, viste le recenti polemiche sulla questione, l’applicazione, realizzata sempre da Wildfire, che permette di visualizzare la curva di adozione di followers/fans di una persona o di un brand. Quando ne vedete una così saprete che sono stati buttati via, in ogni senso, dei soldi per comprare dei follower.

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Data Journalism & Trasparenza dei Partiti

I dati sono un bene pubblico, sia, come spiega Enrico Grazzini, nell’ interpretazione che ne danno gli economisti di “common”, di una risorsa condivisa che dovrebbe essere gestita dalla comunità di riferimento,  che nella versione fornita dai giuristi [soprattutto in Italia] per i quali il bene comune è invece un diritto universale.

Da entrambe le prospettive dunque, il data journalism rappresenta elemento di grande rilevanza per la società e processo di narrazione giornalistica della realtà, metodologia di lavoro che guarda alla cultura open e ai valori sui quali questa si poggia – trasparenza, collaborazione e partecipazione – per riconquistare credibilità e fiducia da parte dei lettori.

Dopo i recenti scandali che hanno coinvolto Luigi Lusi e Francesco Belsito con il Parlamento che obtorto collo discute sui rimborsi elettorali, la segnalazione di Mauro Munafò mi ha particolarmente interessato.

Il giornalista ha realizzato per «l’Espresso» l’inchiesta “Partiti Trasparenti”, fornendo sia i documenti originali della gestione dei principali movimenti, documenti che nella maggior parte dei casi non è possibile leggere neppure nei portali dei partiti stessi, che rielaborando i dati principali di entrate, spese e donazioni per realizzare tabelle e infografiche attraverso le quali confrontare i conti delle formazioni politiche principali, rendendo disponibili tutti gli elementi faticosamente raccolti in open data.

Un lavoro davvero di grande attualità ed interesse che mi ha spinto ad approfondire ulteriormente con una intervista a Mauro Munafò su motivazioni e dettagli di quanto svolto. Qui di seguito il testo.

D: Per prima cosa, oltre a quello che è scritto nel sito, mi piacerebbe capire come è stato fatto il lavoro.

R: Il come è piuttosto semplice: ho preso i pdf dei bilanci dei partiti pubblicati dal supplemento di ottobre della Gazzetta Ufficiale. Pdf che non sono più disponibili gratuitamente perché la consultazione gratuita della GU online dura solo 60 giorni. Una volta trovati i pdf, manualmente ho ricompilato dei file Excel dei conti economici dei principali 7 partiti. Da questi ho poi generato i grafici utilizzando Tableau Software e Google Chart. E su Google doc ho rilasciato gli open data dei conti economici dei partiti, mentre sul sito si possono scaricare anche i pdf originali [dove ci sono i rendiconti e le note, molto importanti da leggere e che in parte sono state incluse nelle pagine]

D: Quali le motivazioni, perchè hai deciso di fare questa indagine.

R: Il perché è semplice: si parla tanto di trasparenza dei partiti e nella maggior parte dei casi non ci sono neppure i bilanci sui siti. Ho voluto costruire un sistema che permettesse almeno una prima consultazione di dati tanto importanti. Per scavare più a fondo serviranno delle nuove leggi che sono al momento in discussione. Diciamo che questo è un primo passo che vuole anche mostrare ai partiti che i pdf da soli non servono a molto.

In passato ho creato altri progetti [puoi vederli su  http://www.lamacchinadelfungo.com/], e mi interesso molto al tema del datajournalism. Al momento lavoro per «L’Espresso» e sono riuscito a coniugare in questa circostanza la mia passione per l’opendata e l’interesse informativo della testata per cui lavoro.

D: Quanto tempo ti ha richiesto portare a compimento il progetto? L’hai fatto tu da solo o in collaborazione con qualcun altro?

R: Circa una settimana di lavoro in solitaria. Fatta sia di ricompilazioni, sia di ricerca dei documenti, sia di realizzazione delle infografiche varie e dei testi. Il Visual Desk del gruppo L’Espresso invece è stato fondamentale nella realizzazione di un minisito ad hoc per il progetto.

D: Quanto sono affidabili/veritieri i bilanci pubblicati secondo te?

R: Bella domanda e risposta difficilissima. I problemi sono di vario tipo. Innanzitutto anche se i bilanci fossero corretti, le note a corredo forniscono spesso un dettaglio non sufficiente delle voci di spesa: dire che si spendono 10 milioni in “oneri vari” che cosa vuol dire? Servirebbero dei resoconti più dettagliati e spesso i bilanci non lo forniscono o lo forniscono in modi differenti.

Altro problema: ogni partito compila il bilancio a modo suo e ti faccio un esempio. I famosi rimborsi elettorali prevedono una rata che ogni anno viene versata ai partiti. Il problema è che alcuni partiti mettono tutta la quota [fatta di 5 rate] nel conto annuale, mentre altri mettono solo una singola rata. Potrei elencarti decine di casi di mancata trasparenza, legati spesso al problema che i partiti italiani hanno vita brevissima: Pdl e Pd non esistevano neppure qualche anno fa e quindi i loro bilanci a volte presentano mancanze o debiti collegati ai partiti fondatori. Il pdl nel 2010 ad esempio pagava pochissimo di stipendi perché probabilmente il personale era ancora contrattualizzato da Forza Italia.

Sulla correttezza “legale” dei bilanci credo che la magistratura abbia detto molto. Il problema è che questi bilanci possono essere compilati in maniera talmente generica che trovare delle magagne leggendoli è molto complicato.

Detto ciò, anche questi bilanci presentano tonnellate di dati che nessuno conosce e che quindi è già un significativo passo avanti condividere con i lettori.

Al di là dei dettagli, consultabili sul minisito realizzato ad hoc, emergono fondamentalmente due aspetti.

La trasparenza dei partiti dovrebbe essere IL tema dominante del dibattito in corso sulle ipotesi di revisione dei finanziamenti e non argomento accessorio poichè, come dimostra l’indagine e gli approfondimenti forniti dall’intervista, ad oggi, al di là delle dichiarazioni di circostanza, ben poco, o nulla, viene fatto su questo fronte.

Il futuro, anche nel giornalismo, è di chi non ha paura di sporcarsi le mani. Grazie a Mauro Munafò per averlo fatto.

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Linkiesta Deve Ricapitalizzare

Già il recente rapporto, realizzato da Nicola Bruno e Rasmus Kleis Nielsen per il Reuters Institute for the Study of Journalism, aveva evidenziato come per le start up all digital dell’informazione del nostro paese la sopravvivenza fosse da considerarsi un successo.

«Italia Oggi» ieri ha riportato alcune indiscrezioni relative ad una di esse: «Linkiesta». Secondo quanto pubblicato i ricavi annuali attualmente si attesterebbero intorno ai 400mila euro mentre i costi, in base a quanto dichiarato dal Direttore Jacopo Tondelli e pubblicato nel precitato studio RSJ, si aggirerebbero intorno agli 800mila euro all’anno. Da qui la necessità di liquidità con gli 80 soci del quotidiano online only a ricapitalizzare per un totale di un milione di euro.

Nuovo ossigeno all’impresa del giornale che spera di arrivare a break even, e dunque di gererare ricavi per 800/850mila euro, entro un anno e mezzo grazie ad una migliore raccolta pubblicitaria affidata, pare, ad una nuova concessionaria, accordi con siti europei d’informazione giornalistica,  per creare un network internazionale che condivida notizie e approfondimenti e rafforzarne la visibilità, e di conseguenza il valore, agli occhi degli inserzionisti pubblicitari.

Aumento dei ricavi che passa anche attraverso una diversificazione ed un ampliamento dell’offerta con fornitura di contenuti propri originali a terzi, ad altre testate, e la pubblicazione di e-book. Probabile anche l’ingresso di un nuovo socio di capitali straniero, pare statunitense.

Ovviamente non si possono che fare i migliori auguri di successo a «Linkiesta». Allo stato attuale si conferna che “survival is success“.

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Il Kit del Giornalismo Partecipativo [e dintorni]

Il «The Guardian» prosegue senza esitazioni sulla strada del giornalismo partecipativo.

Dopo aver creato ad ottobre dell’anno scorso «n0tice», open community per la condivisione di notizie locali e non solo, poi aperta a tutti dal marzo di quest’anno, ora mette a disposizione “the open journalism toolkit”, un set di strumenti per il giornalismo partecipativo.

L’iniziativa, secondo quanto dichiarato, si rivolge sia alle persone che ad altre organizzazioni editoriali e persino alle imprese che volessero utilizzare questi strumenti per realizzare campagne di coinvolgimento del pubblico di riferimento a livello locale.

Il set di strumenti comprende un tool per la realizzazione di mappe co create, uno per creare bacheche virtuali di aggregazione e condivisione di contenuti e mette a disposizione dei programmatori le API [l’interfaccia di programmazione] per ulteriori sviluppi e applicazioni della piattaforma e per la condivisione dei contenuti sugli altri social network. A breve sarà resa disponibile anche l’applicazione per smartphones.

Che la soluzione, anche per le imprese del comparto editoriale, sia nel recupero, miglioramento della relazione con i lettori, con le persone, e loro coinvolgimento, anche, attraverso la creazione di communities proprietarie è una delle tesi che sostengo da tempo. A questo punto del percorso ritengo però necessario entrare maggiormente nel merito di alcuni aspetti che caratterizzano queste iniziative, incluse quelle pregevoli del quotidiano anglosassone.

C’é un aspetto di metodo. La co creazione, quella genuina, vera, si realizza a partire dall’inizio del processo coinvolgendo le persone, il pubblico di riferimento sin dallo stato embrionale del progetto chiedendo loro ed interfacciandosi su quello che vorrebbero veder realizzato e dunque sono disponibili a partecipare attivamente a realizzare. Questo sin ora, in ambito editoriale, non mi pare sia mai stato realmente effettuato.

Se le modalità descritte non vengono portate avanti in questo modo, in realtà il processo resta top down e dunque, a mio modo di vedere, non realmente aperto e partecipativo.

C’é, anche, un aspetto di merito. Il saving economico ottenuto grazie alla collaborazione gratuita, non remunerata, del “reporter-lettore e le revenues aggiuntive che queste iniziative apportano, come sottolineavo al Festival Internazionale del Giornalismo,  devono finalmente includere criteri di revenues sharing, di condivisione anche dei ricavi che si generano e non solo “ricchi premi e cotillons”.

«The Guardian», ha pensato anche a questo, sin ora, in attesa del lancio di Etalia, mi pare l’unico ad averlo fatto.

Attraverso la comunicazione, il trasferimento mutuo di contenuti, la relazione, si diviene leader del contesto economico e sociale, si trasmettono dei valori di riferimento che consentono di influenzare il rapporto con le persone, con i pubblici di riferimento. Non è necessario rifarsi alle più avanzate teorie di social media marketing, basta andarsi a leggere la storia di Adriano Olivetti e dell’impresa che portava il suo nome per capirlo.

Le “rivoluzioni”, qual’è quella che sta trasformando l’ecosistema dell’informazione, si fanno con le persone non a spese loro.

A margine, come complemento informativo, si consiglia la lettura di: Guardian’s open journalism is a failed business model.

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I Media e la Rivoluzione Digitale

John Paton, amministratore delegato di Digital First Media, la seconda impresa d’informazione negli Stati Uniti con 10mila addetti, un fatturato di 1.400 milioni di dollari e 57 milioni di clienti sviluppato con 800 prodotti editoriali tra carta e online, intervistato dal «El Pais» spiega i successi del modello di business adottato dall’azienda da lui diretta.

Un approccio che, come dice già il nome, si fonda sulla priorità data al digitale realizzato sulla revisione completa, iniziata tre anni fa, demolendo completamente il preesistente per ricostruire tutto di nuovo partendo da zero.

Racconta Paton che più un contenuto è condiviso in Rete maggiore è il valore che genera, creando maggior traffico, maggiori visite e consentendo così di monetizzare e spiega che ora il 25% degli accessi arriva da social network.

Una rivoluzione che passa inevitabilmente per l’organizzazione e per le competenze delle persone inpiegate, che coerentemente con la strategia definita sono tutte con esperienza in ambito digitale, e che si trasforma in valore, in ricavi, con lo sviluppo di una propria piattaforma per la vendita della pubblicità che dopo aver generato il primo anno solamente 800mila dollari realizza ora 1,5 milioni di dollari ogni tre settimane [pari a 26 milioni annuali].

Il CEO di Digital First media conclude con elogi ad Alan Rusbridger e al «The Guardian» per la vocazione all’open journalism e la mancanza di timore nello sperimentare.

Sperimentazioni e creazione di comunità del quotidiano anglosassone che sono parte integrante, a mio avviso essenziale, anche di Digital First Media, anche se Paton nell’intervista, non lo dice, come testimonia la realizzazione dei newsroom cafè.

L’evoluzione è quella dai newspaper ai newsbrand come testimoniato dall’inglese Newspaper Marketing Agency, ora rinominata in Newsworks, associazione che mira a valorizzare i giornali presso agenzie pubblicitarie ed investitori pubblicitari, che prende atto del cambiamento, del passaggio ad un ambiente multipiattaforma e, appunto, introduce il concetto di newsbrand, di imprese, di marchi editoriali che offrono informazione, e soluzioni di comunicazione pubblicitaria, non più solo sulla carta ma sull’intera gamma di supporti informativi disponibili.

Un passaggio tanto innegabile quanto non trascurabile che dovrebbe essere visto in un’ottica di integrazione, di convergenza anzichè di contrapposizione con la carta come ahimè spesso avviene, come ricorda anche Jon O’Donnell, Direttore Commerciale, del «The London Evening Standard» che effettua in forte richiamo alla realtà attuale.

E’ la rilevanza, per il pubblico e per gli investitori, la chiave dell’era digitale. La qualità del discorso definisce inevitabilmente la qualità della conversazione, riportando così l’industria dell’informazione al centro degli interessi delle persone.

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Dicotomie in Salsa Social

Google ha commissionato a Millward Brown una ricerca paneuropea sull’impiego nelle aziende di social media e, più in generale, degli strumenti social.

Lo studio, effettuato nella prima metà di marzo di quest’anno, ha coinvolto un campione di 2700 professionals dipendenti in aziende, di 8 segmenti di mercato diversi dai trasporti alle telecomunicazioni passando per beni di largo consumo e media/pubblicità, in Italia, Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Spagna e Svezia. Il peso di ogni nazione è stato attribuito in base al PIL della stessa. I risultati sono stati pubblicati il 15 maggio scorso.

L’indagine sfata il mito che i social media siano, nell’utilizzo da parte dei dipendenti, elemento di distrazione e di perdita di tempo, come ritengono molte imprese, che persistono a bloccarne inutilmente l’accesso che avviene ugualmente attraverso gli smartphones ormai diffusissimi, identificando il potenziale di questi mezzi, di questi strumenti di comunicazione sia interna che esterna per le imprese.

Italiani e spagnoli a pari merito guidano la classifica degli entusiasti nell’utilizzo dei social media. Complessivamente sono i professional di maggior seniority, di maggior anzianità a mostrare maggior interesse ad impiegare questi mezzi, le aziende che hanno una portata internazionale e che appartengono alla distribuzione [al commercio], al largo consumo ed a media/pubblicità.

Con accenti diversi si evidenzia una forte dicotomia tra le potenzialità attribuite e l’impiego che effettivamente se ne fa all’interno delle imprese. Una contraddizione che, se da un lato lascia sperare ad un utilizzo maggiore in futuro, dall’altro lato fotografa con precisione la situazione attuale di inesperienza ed incertezza già testimoniata dalla social media inability delle aziende del nostro Paese.

Un approccio poco strutturato alla materia come evidenzia, anche, Michele Boroni che parla di conversazione insostenibile, citando i risultati di un altra ricerca in materia, che si manifesta sia in chiave di comunicazione interna che per quanto riguarda l’utilizzo corporate dei social media come mezzo di comunicazione verso l’esterno dell’impresa.

Insomma, i social media sono apprezzati ma sottoutilizzati. Dicotomie in salsa social che stabiliscono l’attuale distanza tra i comprtamenti delle persone e quelli di molte imprese.

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Digital & Open

Anche questa settimana all’interno della mia colonna per l’ European Journalism Observatory prosegue la serie di case studies sulle principali testate giornalistiche del vecchio continente.

Dopo aver analizzato, in ordine cronologico di pubblicazione, «Il Sole24Ore», «Le Monde», «El Pais» ed in ultimo il «Financial Times», questa settimana vengono esaminati i risultati, e le motivazioni degli stessi, di uno dei quotidiani generalisti più autorevoli a livello internazionale: il «The Guardian».

Ad un anno dall’annuncio dell’adozione di una strategia “digital first” il punto della situazione del quotidiano anglosassone.

Stiamo così creando all’interno dell’Osservatorio Europeo di Giornalismo, credo di poter dire, un archivio liberamente consultabile di diverse posizioni ed approcci al “dilemma del prigioniero“, in modo da fornire a chi lo desideri gli elementi di base per il benchmarking rispetto alla propria realtà editoriale. Ci manteniamo anche noi, così come il «The Guardian», digital e open.

Buona lettura e buon lavoro.

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