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Contributoria

Vede ufficialmente la luce  con l’inizio del 2014 «Contributoria» una piattaforma per i giornalisti, dei giornalisti.

«Contributoria» è una piattaforma collaborativa di scrittura “peer-to-peer”. Il progetto editoriale, vincitore nel 2012 dell’ International Press Institute’s News Innovation Contest,  permette ai giornalisti di collaborare su tutti gli aspetti del processo di scrittura, tra cui la vendita, l’editing e la pubblicazione.

Il progetto è supportato dal Guardian Media Group con cui collaborano, o hanno collaborato in passato, i tre soci fondatori.

Nell’editoriale di lancio dell’iniziativa si legge:

Volevamo fare qualcosa, non solo parlarne. Abbiamo pensato che fosse il momento di provare un approccio completamente diverso, una combinazione di nuove tecnologie, nuovi metodi di lavoro e nuovi modelli di finanziamento.

Ecco è probabilmente questo, a mio modo di vedere, lo spirito giusto per il 2014. Meno tavole rotonde, meno convegni e “chiacchiere” e più realizzazioni e sperimentazioni. Il 2014 deve essere l’anno del fare.

Contributoria

Per quanto riguarda l’Italia, mossi da questo spirito, il sottoscritto ed un gruppo di altri quattro professional, con competenze diverse e complementari, si apprestano a lanciare un progetto editoriale di iconografie e visualizzazioni [im]mediatiche che vedrà la luce entro il primo trimestre dell’anno con anteprime, per consentire a coloro che lo desidereranno di collavorare [ancora una volta non è un refuso] al progetto, già la entro fine di di questo mese.

Come si suol dire, stay tuned.

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La Differenza tra Notizie e Informazione

Il digitale ha completamente stravolto, rivoluzionato come si suol dire, l’ecosistema dell’informazione. Twitter, newswire per eccellenza, è fonte primaria di notizie per i giornalisti stessi che vi attingono abbondantemente. La notizia è di per se stessa commodity, prodotto indifferenziato di scarso valore per il quale, rebus sic stantibus, le persone mostrano una bassissima propensione ad un riconoscimento economico, a pagare per ottenerla.

Notizia Tweet

Come riuscire dunque  a dare valore aggiunto, attrarre la giusta attenzione delle persone e [sperare di] ricavarne un introito è una delle domande di fondo a cui dare una risposta.

La metafora delle conchiglie suggerita da Annamaria Testa è illuminante in tal senso. Proviamo a guardare le due immagini sotto riportate immaginando di passeggiare in una spiaggia. Nel primo caso si presterebbe poca, o nulla, attenzione alle conchiglie sparse sull’arenile, forse, addirittura, le si calpesterebbero con noncuranza. Nel secondo caso  invece, credo non possano esserci dubbi al riguardo, ci si soffermerebbe, la nostra attenzione ed il nostro interesse per le conchiglie che formano un cuore sarebbe naturale, probabilmente scatteremmo una fotografia da condividere sui social network.

Ecco è questa l’immagine mentale. Il trattamento informativo tradizionale non è più valido, o quantomeno non crea un livello di interesse ed attenzione sufficiente a valorizzarlo. Il valore aggiunto sta nel dare forma e senso alla notizia. Questa è la differenza tra notizie e informazione.

Conchiglie Sparse

Conchiglie Cuore

Per approfondire, vale assolutamente il tempo investito nella lettura, l’articolo pubblicato in questi giorni su Nieman Journalism Lab: “Connecting the dots”

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2014: L’Anno delle Metriche

A fine dell’anno scorso avevo indicato nelle “tre C”: Convergenza, Coinvolgimento e Citizen Journalism  le priorità di intervento, i key pillars per il settore editoriale nel 2013.  Dovendo fare un bilancio il risultato, ahimè, è complessivamente negativo. Su tutti e tre gli aspetti, gli assett strategici di intervento si è visto complessivamente, soprattutto per quanto riguarda il panorama nazionale, davvero poco; al massimo qualche, goffo, tentativo, sperimentazioni una tantum abbandonate tanto frettolosamente quanto intraprese senza un a chiara visione d’assieme.

Credo che le priorità non siano cambiate e rilancio inserendo un quarto aspetto al quale nel corso dell’anno ho dedicato, o almeno o provato a dedicare, spazio tutte le volte che è stato possibile per alimentare il dibattito, il confronto professionale sul tema: le metriche.

Vi sono due aspetti di fondo. In primis le metriche sono fondamentalmente incentrate sul valore, o presunto tale, generato per l’inserzionista come [di]mostra la prevalente focalizzazione su utenti unici e pagine viste. Metriche prevalentemente quantitative che, da un lato, trascurano elementi essenziali comunque di valore per gli investitori pubblicitari e, dall’altro lato, non misurano  l’impatto giornalistico, il valore delle proposte informative della testata per la società nel suo complesso. Aspetto tutt’altro che trascurabile se si conferma che il giornalismo e l’informazione sono un pilastro fondamentale per le democrazie.

Inoltre, le metriche prevalentemente in uso non hanno possibilità di essere rese omogenee rispetto alla versione tradizionale, cartacea, dei quotidiani. In tal senso, il tempo, come vado dicendo da tempo, è, a mio avviso ma anche di molti altri, un indicatore importante del livello di coinvolgimento effettivo del lettore anche online.  In questo caso, se questo elemento di misurazione fosse applicato sia all’online/digitale che alla carta stampata, si avrebbe una metrica comune ad entrambe le versioni.

Collavorare [no, non è un refuso] sul tema è un must poichè è evidente la deriva qualitativa che gli attuali criteri generano. Il 2014 sarà, dovrà essere, l’anno in cui provi rimedio hic et nunc. 2014: l’anno delle metriche.

Whore

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Edicola Italiana: Il Flop è Servito?

Le indiscrezioni circolate a fine settembre parrebbero confermate. Nella primavera del 2014 dovrebbe vedere la luce, siamo ormai al sesto forse settimo annuncio di lancio, “Edicola Italiana“, consorzio costituito da Caltagirone Editore, Gruppo 24 ORE, Gruppo Editoriale L’Espresso, La Stampa, Mondadori e RCS MediaGroup al fine di consentire agli utenti di acquistare e leggere quotidiani e magazine, o abbonarsi a giornali e riviste preferiti in formato digitale.

Secondo quanto ha dichiarato Fabrizio Carotti, Direttore Generale della Federazione Italiana Editori Giornali, nominato Presidente del consorzio, “Gli editori italiani sono consapevoli che il futuro dell’industria dell’informazione passa attraverso l’innovazione digitale e, con l’iniziativa di EDICOLA ITALIANA, fanno un significativo passo avanti in questa direzione. È importante sottolineare come, a fronte di azioni a livello globale di operatori che mettono a disposizione a caro prezzo servizi di distribuzione dei contenuti giornalistici digitali, gli editori italiani, operando in stretta collaborazione, stiano ora offrendo alternative di pari qualità tecnologica e facilità d’uso”.

Sul significato di consapevolezza dell’innovazione digitale basti vedere, da un lato, i tempi biblici di realizzazione della piattaforma per immaginare quante e quali controversie e guerre di quartiere abbia dovuto  affrontare il progetto  annunciato in pompa magna nel marzo 2012 e poi alla fine dell’anno scorso quando si tornò a parlarne e, dall’altro lato, verificare come sulla tracciabilità delle vendite, a cui sono legati per decreto legislativo [*] i finanziamenti ai giornali per il 2013,  di fatto non abbia visto la luce neppure nel corso di quest’anno. Aspetto quest’ultimo sul quale mi chiedo dunque su quali basi verranno liquidati i finanziamenti.

A questo si aggiunga che se si osservano i dati di Francia e Spagna per iniziative simili a quella di Edicola Italiana non si può certo parlare di successo.

Oltralpe esistono tre piattaforme che distribuiscono, che vendono le copie digitali di quotidiani e periodici. Relay, che vende 158 titoli e appartiene a una società dell’editore Lagardère, Lekiosk, che peraltro è presente anche sul mercato italiano, ed ePresse. Secondo quanto dichiarato da OJD, l’equivalente della nostrana ADS, nel totale le copie digitali del primo semestre del 2013 hanno rappresentato il 9% degli esemplari venduti a pagamento.

In Spagna, Orbyt, che è molto più simile al consorzio della nascente Edicola Italiana, realizza numeri davvero ridotti ed, anche in questo caso, è tutt’altro che un successo di vendite come certifica la OJD della penisola iberica.

Da non trascurare infine che spesso le vendite sono effettuate a prezzi davvero ridotti se non addirittura seguendo la formula “all you can eat”.

Edicola Italiana: Il flop è servito?

Game Over Loser

[*] Come stabilito dal decreto legge di metà maggio dell’anno scorso, successivamente convertito con al cune modifiche dalla legge 16 luglio 2012, n. 103, recante disposizioni urgenti in materia di riordino dei contributi alle imprese editrici, nonche’ di vendita della stampa quotidiana e periodica e di pubblicita’ istituzionale

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Modelli di Business 2.0

Il tema della sostenibilità dell’industria dell’informazione resta il nodo centrale, il perno di se e come riuscire a gestire il passaggio, l’evoluzione in corso, con la consapevolezza che  il binomio vendite – advertising non è, e mai più sarà, sufficiente a garantire ricavi sufficienti.

L’identificazione di quali possano dunque essere nuove fonti di ricavo supplementari, integrative rispetto alle attuali, in calo o comunque non sufficienti  a generare nella maggior parte dei casi le revenues necessarie neppure per la copertura dei costi, è la sfida da vincere.

Che la possibilità esista lo testimonia uno studio del The Pew Research Center’s Project for Excellence in Journalism pubblicato a febbraio 2013: “Newspapers Turning Ideas Into Dollars: Four Revenue Success Stories”, del quale avevo pubblicato una sintesi all’epoca, e che Mark Jurkowitz, Associate Director del Pew Research Center, commenta nel video sottostante.

Sul tema terrò domani una lezione per gli studenti del master in scienze della comunicazione.

Ho pensato di rendere pubblica la presentazione che utilizzerò per lavorare con i partecipanti al corso. Resta sempre valida l’avvertenza che le slide sono un punto di appoggio e dunque inevitabilmente non sono esaustive di per se stesse. Spero possano ugualmente risultare interessanti.

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L’Insostenibile Leggerezza dei Settimanali Digitali

Se per i quotidiani sia gli accessi ai siti web che la vendita delle copie digitali hanno, con le dovute differenze, un valore, per i periodici la situazione è molto diversa e pare che l’impatto del digitale causi una “sofferenza” di gran lunga  maggiore.

Non solo il totale delle prime dieci testate, sia nel caso dei settimanali che dei mensili, non raggiunge nel complesso nemmeno gli accessi del solo Corriere.it [o Repubblica.it, fate vobis], ma anche le copie digitali sono decisamente al palo.

Secondo i dati ADS del mese di ottobre, se si escludono i magazine allegati ai quotidiani le vendite di copie digitali sono assolutamente inconsistenti e, ovviamente, con compensano neppure lontanamente il calo della versione cartacea.

«Chi» si assesta al di sotto delle 2mila copie digitali contro le 22omila del cartaceo, ed anche «Panorama» e «L’Epresso» hanno vendite risibili. Le uniche eccezioni sono rappresentate da «Donna Moderna», »Vanity Fair» e »Sorrisi e Canzoni TV» che superano le 15mila copie ciascuno ma che lo fanno prevalentemente [quasi esclusivamente] con le vendite abbinate, in bundle con la versione cartacea.

Grazie al grafico di sintesi dei dati realizzato, anche in questo caso da Human Highway, si rileva una buona dinamicità di «Milano Finanza» nell’ultimo mese che gli permette di raggiungere un’incidenza del 10% circa per il digitale sul totale delle copie vendute. Un’impennata che però è costituita praticamente in toto dalle vendite di copie multiple.

E’ chiaro che i periodici italiani non reggono il passo con i tempi e le modalità dell’online e del digitale. La necessità di un approccio completamente diverso al mercato, ai lettori, rispetto all’attuale è lampante.

L’insostenibile leggerezza dei periodici digitali.

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Ricavi per Gioco

I ricavi dal digitale per il «The New York Times» continuano ad essere una parte assolutamente minoritaria del totale nonostante il successo relativo, certamente ben oltre le aspettative di molti incluso il sottoscritto, come mostra una recente elaborazione.

NYTtotalrevs

Diventa quindi naturale ricercare nuove fonti di ricavo. Il quotidiano in tal senso si sta muovendo sia finalizzando offerte relativamente di nicchia che di ampliamento dell’audience con la produzione di una versione in cinese e di nuovi format.

In un recente speeech Mark Thompson, Chief Executive Officer di New York Times Co, ha affermato che l’idea più intrigante, più interessante a suo avviso è quella di fare soldi con i giochi.

Secondo quanto riporta Quartz nel corso della conferenza Thompson avrebbe detto che:

Abbiamo alcuni fantastici talenti che stanno lavorando sui giochi [….] Abbiamo molto da fare inizialmente ottimizzando la nostra offerta  in corso di sottoscrizione dei cruciverba e che inizierà a dare i suoi frutti nel corso del 2014. Oltre a questo abbiamo alcune idee molto ambiziose rispetto a ciò che possiamo fare con i giochi.

Il «The New York Times» già vende l’abbonamento alla sezione del proprio cruciverba per 7 dollari al mese [o 40$ all’anno] e secondo le stime quest’area genera quasi 3 milioni di ricavi all’anno con una base di oltre 57mila utenti giornalieri. Sicuramente una base interessante dalla quale partire per espandersi.

Ovviamente non si tratta di riproporre l’ultima versione di Angry Birds o Candy Crush ma di effettuare delle proposte coerenti con l’immagine della testata e coinvolgenti per il pubblico di riferimento, o una parte di questo.

È l’ennesima evidenza che “i giochini stupidi”, o ritenuti tali, funzionano, che il gioco e tutte le sue derivate sono un modo per coinvolgere le persone e dunque anche per ottenere dei ricavi. Quanto? Finchè non lo sperimenterete non sarete in grado di saperlo, questo è certo.

sales game

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Il Futuro di Giornalismo e Giornalisti

Venerdì 16 novembre scorso, all’interno dell’inserto dedicato al mondo del lavoro di «la Repubblica», è stato pubblicato un mio articolo di sintesi e analisi dello scenario dell’informazione tra carta e Web [vedi immagine – 1 di 8 pagine – non autorizzata riproduzione].

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All’interno di questo sono state pubblicate due interviste, realizzate dal sottoscritto, sul futuro del giornalismo e dei giornalisti a Marco Bardazzi, Caporedattore Digitale del quotidiano «La Stampa», ed a Ciro Pellegrino, giornalista del quotidiano all digital Fanpage e responsabile del coordinamento Giornalisti Precari Campani.

Per ragioni di spazio una parte delle interviste è stata tagliata. Ho ottenuto il permesso alla pubblicazione integrale delle interviste e credo che, stante la possibilità, sia utile ed opportuno proporle poichè da due prospettive diverse offrono uno spaccato tanto qualificato quanto interessante, in entrambi i casi, sul futuro prossimo venturo dell’informazione nel nostro Paese.

L’intervista a Marco Bardazzi si focalizza sull’ evoluzione del giornalismo e le nuove professionalità richieste, mentre quella a Ciro Pellegrino verte principalmente su evoluzione del Giornalismo, precariato e freelance.

Buona lettura.

Intervista Marco Bardazzi

  1. Qual’è l’impatto dei media digitali sul giornalismo? 

Si abusa spesso del termine “rivoluzione”, ma in questo caso è adeguato. Non siamo di fronte a un semplice passaggio tecnologico o a un nuovo medium che va ad aggiungersi ad altri. E’ un vero cambio di paradigma. La competizione per l’attenzione del lettore è aumentata a dismisura. Tutto questo si traduce in una sfida per i giornali, ma anche in un’enorme opportunità di accedere a nuove forme di racconto. I giornali sono in crisi, inutile negarlo. Ma il giornalismo non è mai stato meglio.

  1. Come cambia il mestiere del giornalista? 

Le regole base sono sempre le stesse e vanno difese: una notizia è tale quale che sia la piattaforma su cui è distribuita. Trovarla, verificarla, metterla in un contesto richiede lo stesso metodo da testimoni esperti che i giornalisti hanno sviluppato nel tempo. Occorre però imparare a usare nuovi strumenti digitali. E bisogna essere consapevoli che è cambiato l’ecosistema. Le 5 W del giornalismo valgono sempre (Who, What, When, Where e Why), ma le prima 4 sono sempre più alla portata di tutti: il nostro valore aggiunto si concentra soprattutto sull’ultima, Why? Spiegare e approfondire.

  1. Le informazioni stanno su Twitter ed il pubblico su Facebook. Poco tempo fa “La Stampa” ha reso pubblico il decalogo interno per l’uso dei social media da parte dei propri giornalisti. L’impatto di social media e social network come sta cambiando il giornalismo ed il mestiere del giornalista? 

A La Stampa incoraggiamo i colleghi a utilizzare i social media, perché siamo consapevoli che è finito il tempo dell’informazione broadcast, a senso unico, e si entra in un’era sempre più sharing, di condivisione del racconto con le persone che sono anche i nostri lettori. Questo arricchisce il lavoro giornalistico. Ci siamo dati qualche regola interna non per fissare dei paletti burocratici, ma per aiutarci a ricordare alcune regole fisse di buon senso anche nel mondo digitale. Ma è un decalogo che evolve continuamente con il mutare della Rete.

  1. Come cambia la redazione giornalistica con il digitale? 

Nel nostro caso è cambiata e sta cambiando profondamente, fino alla disposizione delle postazioni di lavoro. Da un anno abbiamo creato un’innovativa redazione multipiattaforma con un disegno inedito, a cerchi concentrici: un “hub” centrale in cui si trovano le figure-chiave del giornale (carta e digitale insieme, integrati), con i vari desk disposti intorno. Abbiamo cambiato sistema editoriale, orari, turni. Il tutto per favorire l’integrazione e uno scambio di contenuti più semplice possibile sulle varie piattaforme, cartacee e digitali.

  1. Il “nuovo giornalismo” passa solo dai giornalisti o anche dagli editori? 

E’ un lavoro che va fatto insieme anche perché il digitale, rispetto alla carta, richiede un livello maggiore di collaborazione e coinvolgimento tra giornalisti, tecnici, sviluppatori, grafici, marketing. Occorre anche uno sforzo di abbattimento di molte barriere che esistono nei giornali. Poi bisogna innovare, e in questo gli editori sono decisivi. La nuova redazione de La Stampa, l’innovativa Fiat 500L “Web Car” che abbiamo lanciato da un mese, il laboratorio di giornalismo MediaLab e molte altre iniziative che facciamo, richiedono un editore che ci crede. Sarà interessante vedere cosa faranno in questo senso nuovi editori come Jeff Bezos, appena sbarcato al Washington Post.

  1. Il citizen journalism, il giornalismo partecipativo, è alleato o rivale dei giornalismo professionale? 

E’ una realtà di cui tenere conto e che va considerata un arricchimento per il giornalismo, non certo come un avversario. Ma senza mitizzare: sui siti delle grandi testate i lettori non vengono per cercare citizen journalism, ma giornalismo professionale arricchito dalla partecipazione di tanti altri protagonisti.

  1. La sopravvivenza dei mestieri legati alla scrittura, del giornalismo, è profondamente legata alla capacità di rinnovarsi e di adattarsi alla tecnologia e ai nuovi metodi di lavoro da essa imposti. Nascono nuove professionalità che un tempo non esistevano quali il “Social Media Editor” o il “Data Journalist” per fare due esempi. Quali le professionalità richieste, il necessario livello di specializzazione? E quale, se possibile a definirsi, tra tutte la più importante? 

Per fare i giornalisti servono i requisiti di sempre: curiosità, intuito, capacità di cogliere e raccontare i fenomeni, buona scrittura. Il tutto indubbiamente oggi va integrato, più che in passato, con una predisposizione all’uso delle tecnologie. Nelle redazioni c’è sicuramente più bisogno di professionisti flessibili che siano a loro agio con i video, le immagini, la multimedialità. E con i numeri: il data journalism sarà il grande boom dei prossimi anni.

  1. Nel rinnovamento del mestiere di giornalista quale è, e quale dovrebbe essere, il ruolo delle scuole di giornalismo? 

Io ho cominciato facendo la classica gavetta, e così buona parte della mia generazione e di quelle precedenti. Oggi è diventato quasi impossibile e le scuole sono un percorso obbligato per l’accesso alla professione. Si è perso un po’ l’apprendistato, ma complessivamente è un salto di qualità. Le scuole quindi sono decisive, ma come le redazioni anche loro devono innovare e tenere il passo.

  1. Quali sono “gli attrezzi del mestiere” per i professionisti dell’informazione, per i giornalisti? 

Non vorrei sembrare vecchio, ma il primo requisito resta quello di leggere e saper leggere i giornali e le agenzie: non si vive di solo Twitter. Quanto agli strumenti operativi, a mio avviso la maggiore innovazione degli ultimi anni per i giornalisti è stato il tablet. Può fare mille cose, per chi impara a usarlo bene.

  1. Nel suo libro “L’ultima notizia” scrive che “nelle battaglie tra i giovani leoni dell’informatica e le vecchie volpi dell’editoria, sono queste ad avere la peggio”. Però anche nel giornalismo il precariato è ormai una realtà per la maggior parte dei giovani. Quali i suoi consigli per emergere – e farsi assumere – in un grande giornale nazionale? 

Farsi assumere è diventato complesso, per una serie di motivi molti dei quali si spera siano congiunturali. Un consiglio di fondo: rendersi indispensabili. I giornali devono innovare, ma non hanno tutte le risorse professionali al loro interno per farlo. Nella caccia al posto di lavoro, è avvantaggiato chi sa offrire risposte alle nuove domande di contenuti di qualità digitali che stanno emergendo: video, data journalism, visualizzazioni, infografiche. I giornali, che hanno difficoltà ad assumere, possono però trovare forme creative per trasformarsi anche in incubatori di start-up. L’innovazione, nel nostro mondo, passerà da qui.

Torino Foto Luigi Sergio Tenani: PRESENTAZIONE DEL LIBRO "UN ISTANTE PRIMA" DEL MAGISTRATO STEFANO DAMBRUOSO ED IL GIORNALISTA VINCENZO R.SPAGNOLO

Intervista a Ciro Pellegrino

  1. Il livello occupazionale dei giornalisti negli ultimi anni ha avuto un forte ridimensionamento con prepensionamenti, cassa integrazione e licenziamenti. Si tratta solo del crollo dei ricavi dalle vendite di copie ed il tracollo degli investimenti pubblicitari sulla carta stampata o le vere motivazioni sono da ricercarsi altrove? 

È evidente che ci sono tantissime ragioni. L’informazione online e molteplici nuovi modelli e nuovi prodotti editoriali; i contenuti generati dagli utenti che in un clima di crescente diffidenza verso i media sono finiti per essere, in molti casi, più autorevoli del prodotto giornalistico, agli occhi dei lettori. E poi l’enorme ritardo nel rendersi conto che un cambiamento stava travolgendo un sistema. Ora che è cambiato tutto si raccolgono i cocci, ma è evidente che non possiamo confrontarci più con un modello imprenditoriale vecchio di un secolo.

  1. Secondo il rapporto “La Fabbrica dei Giornalisti” stilato da LSDI – Libertà di Stampa e d’Informazione – sono oltre 112.000 in Italia:il triplo che in Francia, il doppio che in Gran Bretagna. Ma solo il 45% sono “attivi ufficialmente’’ e solo 1 su 5 ha un contratto di lavoro dipendente. E’ necessaria una nuova regolamentazione che restringa l’accesso alla professione giornalistica o la soluzione va ricercata in altro modo? 

La tessera da giornalista in Italia è stata per anni uno status symbol piuttosto che la certificazione di una professionalità. Quanti giornalisti pubblicisti che non hanno mai pubblicato niente di niente esistono? La legge dice che dovrebbero dimostrare la loro attività. Ma come? È necessaria una legge nuova: quella che abbiamo fa acqua da tutte le parti. Anziché discutere sull’abolizione o meno dell’Ordine dei giornalisti, questione che in Italia scatena guerre civili, servirebbe una normativa moderna, capace di dichiarare giornalista una persona solo al termine di un serio percorso di studio. 

  1. E’ il giornalismo ed il mestiere di giornalista ad essere in crisi oppure è solo un problema di individuazione di nuovi modelli di business da parte degli editori? 

L’Italia è rovinata, ma non al punto da essere insensibile all’informazione. Se guardi non solo su base nazionale ma anche su quella locale c’è “fame” di notizie. Ci sono più festival del giornalismo che giornalisti, in Italia. Ci sono più dibattiti sull’informazione ogni giorno. Secondo te il problema è davvero la crisi del giornalismo? Non dovremmo forse guardare in casa degli editori italiani, delle loro proprietà, dei loro interessi? Qual è davvero il business di un editore italiano? Fare un prodotto capace di interesse e quindi spendibile sul mercato oppure rispondere ad altre logiche? 

  1. Scuole di giornalismo fabbrica di disoccupati? Quale dovrebbe essere il ruolo loro ruolo e su quali competenze dovrebbero focalizzare la loro attività per garantire un futuro lavorativo ai loro iscritti? 

Le scuole di giornalismo hanno fallito. Costano troppo; non preparano chi le frequenta alla realtà della redazione, alla ricerca sul campo. E poi, pagare per garantirsi un praticantato, diventare giornalista professionista e affrontare un universo incapace di assumere giovani mi dici a che serve? Io penso ad un percorso universitario e realmente selettivo. Sai quando mi sento veramente umiliato come giornalista italiano? Quando vado al Festival internazionale del giornalismo di Perugia e vedo miei coetanei o colleghi anche più piccoli di me in ruoli strategici di grandi testate. Umili, preparatissimi e responsabili. In Italia non accade. Alla Columbia, la più importante scuola di giornalismo del mondo, ci sono focus, seminari sui social. E qui siamo ancora a chi ha più followers su twitter o a chi li compra fasulli. Una rovina.

  1. E’ il digitale, Internet, che hanno causato la crisi di questa professione o la spiegazione è un’altra? 

Mi risulta difficile credere che allargare una strada possa essere d’intralcio a chi vuole percorrerla. Internet ha allargato la via della notizia che oggi viaggia a velocità pazzesche. Forse dobbiamo far capire alla gente che certi contenuti di qualità vanno pagati e il “tutto gratis” non è un sistema più percorribile? Sono d’accordo. Nel frattempo, però, pensiamo anche che il lavoro di chi fa informazione va pagato: in Italia questo è l’ultimo problema che ci si pone.

  1. Oltre a prepensionamenti, cassa integrazione e licenziamenti, è il precariato l’altra faccia della crisi della carta stampata. Quanto è diffuso oggi il fenomeno e quali sono le implicazioni nell’esercizio della professione giornalistica? 

Otto nuovi giornalisti su dieci sono destinati a rimanere precari per anni. Lo dicono i dati che abbiamo raccolto nel corso degli ultimi tre anni. Di questi otto almeno tre lasceranno il mestiere. E dei restanti cinque una parte vivacchia tra un lavoro a nero e uno sottopagato e altri entrano in contatto con una redazione sperando l’inferno della collaborazione sottopagata con partita iva porti, alla fine, all’agognato contratto che spesso non arriva. Le aziende preferiscono prepensionare i vecchi giornalisti e farli rientrare dalla finestra come consulenti. Alla faccia del ricambio generazionale.

  1. A dicembre 2012 è stata approvata la legge per l’equo compenso per i giornalisti lavoratori autonomi ma resta ancora inapplicata perché non ne sono state emanate le norme attuative. Qual è il problema? 

Il problema è che editori, sindacato e ordine non si mettono d’accordo su come quantificare un equo compenso senza correre il rischio di stilare un tariffario, vietato dalle norme europee sulla libera concorrenza nelle professioni. Di recente ho incontrato il sottosegretario all’Editoria Giovanni Legnini: mi ha detto di avere convocato la Commissione equo compenso per il prossimo 8 ottobre e che in caso di mancato accordo tra le parti prenderà in mano la situazione e presenterà una proposta del governo. La promessa è di arrivare all’equo compenso entro la fine del 2013. Attendiamo fiduciosi, si dice così?

  1. In molte regioni è stato creato il coordinamento dei giornalisti precari. Lei che è responsabile di quelli della Campania potrebbe spiegarci qual è il ruolo e l’incisività di queste iniziative? 

I coordinamenti oltre che in Campania sono attivi in Veneto, in Toscana, a Roma, in Abruzzo. Di recente anche a Milano e in Puglia e in molte altre regioni. L’obiettivo è quello di ricordare che ci sono anche i precari del giornalismo. Sai che siamo bravissimi a raccontare i guai degli altri ma non i nostri? C’è ancora qualcuno che parla di noi come di una casta, ignorando l’enorme disparità tra il sempre più sparuto gruppo di contrattualizzati e l’enorme platea di precari, atipici e freelance.

  1. Il mito del posto fisso è un miraggio ormai anche nel mondo del giornalismo o esistono “trucchi”, piccole grandi attenzioni per riuscire ad entrare stabilmente nella redazione di un quotidiano? 

Cosa ti dovrei rispondere? Un bel trucco è la raccomandazione, come nella migliore tradizione italica. Ma nemmeno quella funziona come prima, almeno così mi dicono. A parte questo molti colleghi sono riusciti a vedere riconosciute le loro ragioni con le cause di lavoro, ma è sempre più difficile. Io non ho mai pensato che il giornalismofosse un mestiere tranquillo. Ma pensavo che avrei avuto problemi per le notizie “scomode”. E invece l’ostacolo da freelance è stato quello di farsi pagare. E quello da disoccupato è stato inseguire l’editore fallito per vie legali e vedersi riconosciuti stipendi arretrati e Tfr.

  1. Molti sostengono che il mestiere del giornalista sia sempre più per “figli dei ricchi”, per persone che possono permettersi anni di mancati, o comunque scarsi, guadagni. E’ davvero così? 

Io sono figlio di un falegname e di una casalinga e vengo da Napoli. Ricco non sono. C’è bisogno anche di incontrare le persone giuste, non è sempre facile. Penso che la situazione sia comune anche ad altre professioni. Il problema è anche un altro: noi maneggiamo l’informazione. Un compito del genere nelle mani di un professionista sotto ricatto (e chi è sottopagato lo è , sempre) non è esattamente quello che si dice “favorire la libertà di stampa”. Così si inquina il pozzo dell’informazione al quale dovrebbero invece attingere tutti senza timore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. 

Foto CIRO_PELLEGRINO

NB: Per eventuale riproduzione delle interviste si prega cortesemente di richiedere consenso preventivo. Grazie.

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Social Media Marketing “De Noantri”

Dopo che il mese scorso è stato pubblicato il content marketing de noartri è oggi la volta del social media marketing de noartri [chissà mai che diventi una rubrica fissa con cadenza mensile].

Lo spunto viene dalla pagina Facebook del quotidiano del Nordest «Il Gazzettino» [*]  che, come riporta anche la classifica mensile realizzata da Blogmeter, sta scalando la classifica dell’engagement in casa Zuckerberg e al momento della redazione di questo articolo ha un PTAT – persone che ne stanno parlando –  del 35.8%.

Molto bene dunque parrebbe. E invece, a mio avviso, assolutamente no.

Per fare questo “risultato” sulla pagina Facebook del quotidiano in questione da qualche mese vengono caricati contenuti che nulla hanno a che vedere con l’identità del giornale. Ad esempio uno dei post con il maggior numero di condivisioni, altro parametro di engagement, di ieri è questo sottoriportato.

Gazzettino

La pagina Facebook viene alimentata con una frequenza davvero elevata ed i contenuti quali quello sopra riportato come concreta esemplificazione si sprecano. Cosa che invece non avviene su Twitter dove invece il quotidiano mantiene maggior rigore e identità.

Si tratta della più amara delle evidenze della sopraffazione dell’informazione spettacolo sulla qualità giornalistica, dell’effetto auditel [adattato alla realtà nostrana] dettato dalla rincorsa, tanto spasmodica quanto scomposta, al recupero delle revenues inseguendo le pagine viste ad ogni costo anche a quello di snaturare l’identità, e dunque il valore del brand, della testata.

Ma funziona almeno? Dalla mia analisi parrebbe di no.

La storia che ottiene il massimo tasso di engagement nell’ultima settimana, tra quelle con elementi multimediali [foto e video], con 1565 “mi piace”, è relativa ad una storia d’amore tra due anziani di Treviso, del territorio nel quale il quotidiano è storicamente radicato.

Anche a livello di click non sembra che questo tipo di politica di informazione spettacolo su Facebook paghi come mostra il grafico degli outbound posts, confermando come i like non siano voti nè propensione all’acquisto.

Il social media marketing de noartri serve solo a svaccare, a intaccare pericolosamente la reputazione del brand della testata. Sapevatelo!

Gazzettino Outbound

[*] Il caso de «Il Gazzettino» è stato preso solo come esempio di pratiche tanto diffuse quanto inopportune.

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Pagherete Caro, Pagherete Tutto?

Lightspeed Research, per conto di Kantar Media, ad agosto di quest’anno ha indagato la propensione degli internauti britannici, delle persone a pagare per l’informazione online.

Dai risultati, pubblicati in questi giorni, emerge, o forse per meglio dire si conferma ancora una volta, come la disponibilità a pagare sia assolutamente minima. Complessivamente solo il 4% degli intervistati afferma di aver pagato per dei contenuti informativi online e l’80% afferma che smetterebbe di visitare il sito web di una testata se questa adottasse un paywall.

Il 43% dei rispondenti afferma che non ci sia motivo di pagare per avere informazione che altrove è disponibile gratuitamente ma il 21% dice che può avere senso se il contenuto è di nicchia, specializzato.

Al di là della conferma della scarsissima propensione a pagare, che emerge in tutte le ricerche sul tema, nella mia interpretazione, i dati dicono da un lato che le notizie sono perlopiù unbranded e che dunque senza brand non c’è valore aggiunto, non c’è speranza di sopravvivenza, e dall’altro lato che la specializzazione paga anche da questo punto di vista.

Non è necessario guardare esclusivamente ai successi del «Financial Times» in tal senso ma è sufficiente vedere l’andamento delle vendite di copie digitali nel nostro Paese per capirlo.

Paywall UK

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