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Il Futuro di Giornalismo e Giornalisti

Venerdì 16 novembre scorso, all’interno dell’inserto dedicato al mondo del lavoro di «la Repubblica», è stato pubblicato un mio articolo di sintesi e analisi dello scenario dell’informazione tra carta e Web [vedi immagine – 1 di 8 pagine – non autorizzata riproduzione].

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All’interno di questo sono state pubblicate due interviste, realizzate dal sottoscritto, sul futuro del giornalismo e dei giornalisti a Marco Bardazzi, Caporedattore Digitale del quotidiano «La Stampa», ed a Ciro Pellegrino, giornalista del quotidiano all digital Fanpage e responsabile del coordinamento Giornalisti Precari Campani.

Per ragioni di spazio una parte delle interviste è stata tagliata. Ho ottenuto il permesso alla pubblicazione integrale delle interviste e credo che, stante la possibilità, sia utile ed opportuno proporle poichè da due prospettive diverse offrono uno spaccato tanto qualificato quanto interessante, in entrambi i casi, sul futuro prossimo venturo dell’informazione nel nostro Paese.

L’intervista a Marco Bardazzi si focalizza sull’ evoluzione del giornalismo e le nuove professionalità richieste, mentre quella a Ciro Pellegrino verte principalmente su evoluzione del Giornalismo, precariato e freelance.

Buona lettura.

Intervista Marco Bardazzi

  1. Qual’è l’impatto dei media digitali sul giornalismo? 

Si abusa spesso del termine “rivoluzione”, ma in questo caso è adeguato. Non siamo di fronte a un semplice passaggio tecnologico o a un nuovo medium che va ad aggiungersi ad altri. E’ un vero cambio di paradigma. La competizione per l’attenzione del lettore è aumentata a dismisura. Tutto questo si traduce in una sfida per i giornali, ma anche in un’enorme opportunità di accedere a nuove forme di racconto. I giornali sono in crisi, inutile negarlo. Ma il giornalismo non è mai stato meglio.

  1. Come cambia il mestiere del giornalista? 

Le regole base sono sempre le stesse e vanno difese: una notizia è tale quale che sia la piattaforma su cui è distribuita. Trovarla, verificarla, metterla in un contesto richiede lo stesso metodo da testimoni esperti che i giornalisti hanno sviluppato nel tempo. Occorre però imparare a usare nuovi strumenti digitali. E bisogna essere consapevoli che è cambiato l’ecosistema. Le 5 W del giornalismo valgono sempre (Who, What, When, Where e Why), ma le prima 4 sono sempre più alla portata di tutti: il nostro valore aggiunto si concentra soprattutto sull’ultima, Why? Spiegare e approfondire.

  1. Le informazioni stanno su Twitter ed il pubblico su Facebook. Poco tempo fa “La Stampa” ha reso pubblico il decalogo interno per l’uso dei social media da parte dei propri giornalisti. L’impatto di social media e social network come sta cambiando il giornalismo ed il mestiere del giornalista? 

A La Stampa incoraggiamo i colleghi a utilizzare i social media, perché siamo consapevoli che è finito il tempo dell’informazione broadcast, a senso unico, e si entra in un’era sempre più sharing, di condivisione del racconto con le persone che sono anche i nostri lettori. Questo arricchisce il lavoro giornalistico. Ci siamo dati qualche regola interna non per fissare dei paletti burocratici, ma per aiutarci a ricordare alcune regole fisse di buon senso anche nel mondo digitale. Ma è un decalogo che evolve continuamente con il mutare della Rete.

  1. Come cambia la redazione giornalistica con il digitale? 

Nel nostro caso è cambiata e sta cambiando profondamente, fino alla disposizione delle postazioni di lavoro. Da un anno abbiamo creato un’innovativa redazione multipiattaforma con un disegno inedito, a cerchi concentrici: un “hub” centrale in cui si trovano le figure-chiave del giornale (carta e digitale insieme, integrati), con i vari desk disposti intorno. Abbiamo cambiato sistema editoriale, orari, turni. Il tutto per favorire l’integrazione e uno scambio di contenuti più semplice possibile sulle varie piattaforme, cartacee e digitali.

  1. Il “nuovo giornalismo” passa solo dai giornalisti o anche dagli editori? 

E’ un lavoro che va fatto insieme anche perché il digitale, rispetto alla carta, richiede un livello maggiore di collaborazione e coinvolgimento tra giornalisti, tecnici, sviluppatori, grafici, marketing. Occorre anche uno sforzo di abbattimento di molte barriere che esistono nei giornali. Poi bisogna innovare, e in questo gli editori sono decisivi. La nuova redazione de La Stampa, l’innovativa Fiat 500L “Web Car” che abbiamo lanciato da un mese, il laboratorio di giornalismo MediaLab e molte altre iniziative che facciamo, richiedono un editore che ci crede. Sarà interessante vedere cosa faranno in questo senso nuovi editori come Jeff Bezos, appena sbarcato al Washington Post.

  1. Il citizen journalism, il giornalismo partecipativo, è alleato o rivale dei giornalismo professionale? 

E’ una realtà di cui tenere conto e che va considerata un arricchimento per il giornalismo, non certo come un avversario. Ma senza mitizzare: sui siti delle grandi testate i lettori non vengono per cercare citizen journalism, ma giornalismo professionale arricchito dalla partecipazione di tanti altri protagonisti.

  1. La sopravvivenza dei mestieri legati alla scrittura, del giornalismo, è profondamente legata alla capacità di rinnovarsi e di adattarsi alla tecnologia e ai nuovi metodi di lavoro da essa imposti. Nascono nuove professionalità che un tempo non esistevano quali il “Social Media Editor” o il “Data Journalist” per fare due esempi. Quali le professionalità richieste, il necessario livello di specializzazione? E quale, se possibile a definirsi, tra tutte la più importante? 

Per fare i giornalisti servono i requisiti di sempre: curiosità, intuito, capacità di cogliere e raccontare i fenomeni, buona scrittura. Il tutto indubbiamente oggi va integrato, più che in passato, con una predisposizione all’uso delle tecnologie. Nelle redazioni c’è sicuramente più bisogno di professionisti flessibili che siano a loro agio con i video, le immagini, la multimedialità. E con i numeri: il data journalism sarà il grande boom dei prossimi anni.

  1. Nel rinnovamento del mestiere di giornalista quale è, e quale dovrebbe essere, il ruolo delle scuole di giornalismo? 

Io ho cominciato facendo la classica gavetta, e così buona parte della mia generazione e di quelle precedenti. Oggi è diventato quasi impossibile e le scuole sono un percorso obbligato per l’accesso alla professione. Si è perso un po’ l’apprendistato, ma complessivamente è un salto di qualità. Le scuole quindi sono decisive, ma come le redazioni anche loro devono innovare e tenere il passo.

  1. Quali sono “gli attrezzi del mestiere” per i professionisti dell’informazione, per i giornalisti? 

Non vorrei sembrare vecchio, ma il primo requisito resta quello di leggere e saper leggere i giornali e le agenzie: non si vive di solo Twitter. Quanto agli strumenti operativi, a mio avviso la maggiore innovazione degli ultimi anni per i giornalisti è stato il tablet. Può fare mille cose, per chi impara a usarlo bene.

  1. Nel suo libro “L’ultima notizia” scrive che “nelle battaglie tra i giovani leoni dell’informatica e le vecchie volpi dell’editoria, sono queste ad avere la peggio”. Però anche nel giornalismo il precariato è ormai una realtà per la maggior parte dei giovani. Quali i suoi consigli per emergere – e farsi assumere – in un grande giornale nazionale? 

Farsi assumere è diventato complesso, per una serie di motivi molti dei quali si spera siano congiunturali. Un consiglio di fondo: rendersi indispensabili. I giornali devono innovare, ma non hanno tutte le risorse professionali al loro interno per farlo. Nella caccia al posto di lavoro, è avvantaggiato chi sa offrire risposte alle nuove domande di contenuti di qualità digitali che stanno emergendo: video, data journalism, visualizzazioni, infografiche. I giornali, che hanno difficoltà ad assumere, possono però trovare forme creative per trasformarsi anche in incubatori di start-up. L’innovazione, nel nostro mondo, passerà da qui.

Torino Foto Luigi Sergio Tenani: PRESENTAZIONE DEL LIBRO "UN ISTANTE PRIMA" DEL MAGISTRATO STEFANO DAMBRUOSO ED IL GIORNALISTA VINCENZO R.SPAGNOLO

Intervista a Ciro Pellegrino

  1. Il livello occupazionale dei giornalisti negli ultimi anni ha avuto un forte ridimensionamento con prepensionamenti, cassa integrazione e licenziamenti. Si tratta solo del crollo dei ricavi dalle vendite di copie ed il tracollo degli investimenti pubblicitari sulla carta stampata o le vere motivazioni sono da ricercarsi altrove? 

È evidente che ci sono tantissime ragioni. L’informazione online e molteplici nuovi modelli e nuovi prodotti editoriali; i contenuti generati dagli utenti che in un clima di crescente diffidenza verso i media sono finiti per essere, in molti casi, più autorevoli del prodotto giornalistico, agli occhi dei lettori. E poi l’enorme ritardo nel rendersi conto che un cambiamento stava travolgendo un sistema. Ora che è cambiato tutto si raccolgono i cocci, ma è evidente che non possiamo confrontarci più con un modello imprenditoriale vecchio di un secolo.

  1. Secondo il rapporto “La Fabbrica dei Giornalisti” stilato da LSDI – Libertà di Stampa e d’Informazione – sono oltre 112.000 in Italia:il triplo che in Francia, il doppio che in Gran Bretagna. Ma solo il 45% sono “attivi ufficialmente’’ e solo 1 su 5 ha un contratto di lavoro dipendente. E’ necessaria una nuova regolamentazione che restringa l’accesso alla professione giornalistica o la soluzione va ricercata in altro modo? 

La tessera da giornalista in Italia è stata per anni uno status symbol piuttosto che la certificazione di una professionalità. Quanti giornalisti pubblicisti che non hanno mai pubblicato niente di niente esistono? La legge dice che dovrebbero dimostrare la loro attività. Ma come? È necessaria una legge nuova: quella che abbiamo fa acqua da tutte le parti. Anziché discutere sull’abolizione o meno dell’Ordine dei giornalisti, questione che in Italia scatena guerre civili, servirebbe una normativa moderna, capace di dichiarare giornalista una persona solo al termine di un serio percorso di studio. 

  1. E’ il giornalismo ed il mestiere di giornalista ad essere in crisi oppure è solo un problema di individuazione di nuovi modelli di business da parte degli editori? 

L’Italia è rovinata, ma non al punto da essere insensibile all’informazione. Se guardi non solo su base nazionale ma anche su quella locale c’è “fame” di notizie. Ci sono più festival del giornalismo che giornalisti, in Italia. Ci sono più dibattiti sull’informazione ogni giorno. Secondo te il problema è davvero la crisi del giornalismo? Non dovremmo forse guardare in casa degli editori italiani, delle loro proprietà, dei loro interessi? Qual è davvero il business di un editore italiano? Fare un prodotto capace di interesse e quindi spendibile sul mercato oppure rispondere ad altre logiche? 

  1. Scuole di giornalismo fabbrica di disoccupati? Quale dovrebbe essere il ruolo loro ruolo e su quali competenze dovrebbero focalizzare la loro attività per garantire un futuro lavorativo ai loro iscritti? 

Le scuole di giornalismo hanno fallito. Costano troppo; non preparano chi le frequenta alla realtà della redazione, alla ricerca sul campo. E poi, pagare per garantirsi un praticantato, diventare giornalista professionista e affrontare un universo incapace di assumere giovani mi dici a che serve? Io penso ad un percorso universitario e realmente selettivo. Sai quando mi sento veramente umiliato come giornalista italiano? Quando vado al Festival internazionale del giornalismo di Perugia e vedo miei coetanei o colleghi anche più piccoli di me in ruoli strategici di grandi testate. Umili, preparatissimi e responsabili. In Italia non accade. Alla Columbia, la più importante scuola di giornalismo del mondo, ci sono focus, seminari sui social. E qui siamo ancora a chi ha più followers su twitter o a chi li compra fasulli. Una rovina.

  1. E’ il digitale, Internet, che hanno causato la crisi di questa professione o la spiegazione è un’altra? 

Mi risulta difficile credere che allargare una strada possa essere d’intralcio a chi vuole percorrerla. Internet ha allargato la via della notizia che oggi viaggia a velocità pazzesche. Forse dobbiamo far capire alla gente che certi contenuti di qualità vanno pagati e il “tutto gratis” non è un sistema più percorribile? Sono d’accordo. Nel frattempo, però, pensiamo anche che il lavoro di chi fa informazione va pagato: in Italia questo è l’ultimo problema che ci si pone.

  1. Oltre a prepensionamenti, cassa integrazione e licenziamenti, è il precariato l’altra faccia della crisi della carta stampata. Quanto è diffuso oggi il fenomeno e quali sono le implicazioni nell’esercizio della professione giornalistica? 

Otto nuovi giornalisti su dieci sono destinati a rimanere precari per anni. Lo dicono i dati che abbiamo raccolto nel corso degli ultimi tre anni. Di questi otto almeno tre lasceranno il mestiere. E dei restanti cinque una parte vivacchia tra un lavoro a nero e uno sottopagato e altri entrano in contatto con una redazione sperando l’inferno della collaborazione sottopagata con partita iva porti, alla fine, all’agognato contratto che spesso non arriva. Le aziende preferiscono prepensionare i vecchi giornalisti e farli rientrare dalla finestra come consulenti. Alla faccia del ricambio generazionale.

  1. A dicembre 2012 è stata approvata la legge per l’equo compenso per i giornalisti lavoratori autonomi ma resta ancora inapplicata perché non ne sono state emanate le norme attuative. Qual è il problema? 

Il problema è che editori, sindacato e ordine non si mettono d’accordo su come quantificare un equo compenso senza correre il rischio di stilare un tariffario, vietato dalle norme europee sulla libera concorrenza nelle professioni. Di recente ho incontrato il sottosegretario all’Editoria Giovanni Legnini: mi ha detto di avere convocato la Commissione equo compenso per il prossimo 8 ottobre e che in caso di mancato accordo tra le parti prenderà in mano la situazione e presenterà una proposta del governo. La promessa è di arrivare all’equo compenso entro la fine del 2013. Attendiamo fiduciosi, si dice così?

  1. In molte regioni è stato creato il coordinamento dei giornalisti precari. Lei che è responsabile di quelli della Campania potrebbe spiegarci qual è il ruolo e l’incisività di queste iniziative? 

I coordinamenti oltre che in Campania sono attivi in Veneto, in Toscana, a Roma, in Abruzzo. Di recente anche a Milano e in Puglia e in molte altre regioni. L’obiettivo è quello di ricordare che ci sono anche i precari del giornalismo. Sai che siamo bravissimi a raccontare i guai degli altri ma non i nostri? C’è ancora qualcuno che parla di noi come di una casta, ignorando l’enorme disparità tra il sempre più sparuto gruppo di contrattualizzati e l’enorme platea di precari, atipici e freelance.

  1. Il mito del posto fisso è un miraggio ormai anche nel mondo del giornalismo o esistono “trucchi”, piccole grandi attenzioni per riuscire ad entrare stabilmente nella redazione di un quotidiano? 

Cosa ti dovrei rispondere? Un bel trucco è la raccomandazione, come nella migliore tradizione italica. Ma nemmeno quella funziona come prima, almeno così mi dicono. A parte questo molti colleghi sono riusciti a vedere riconosciute le loro ragioni con le cause di lavoro, ma è sempre più difficile. Io non ho mai pensato che il giornalismofosse un mestiere tranquillo. Ma pensavo che avrei avuto problemi per le notizie “scomode”. E invece l’ostacolo da freelance è stato quello di farsi pagare. E quello da disoccupato è stato inseguire l’editore fallito per vie legali e vedersi riconosciuti stipendi arretrati e Tfr.

  1. Molti sostengono che il mestiere del giornalista sia sempre più per “figli dei ricchi”, per persone che possono permettersi anni di mancati, o comunque scarsi, guadagni. E’ davvero così? 

Io sono figlio di un falegname e di una casalinga e vengo da Napoli. Ricco non sono. C’è bisogno anche di incontrare le persone giuste, non è sempre facile. Penso che la situazione sia comune anche ad altre professioni. Il problema è anche un altro: noi maneggiamo l’informazione. Un compito del genere nelle mani di un professionista sotto ricatto (e chi è sottopagato lo è , sempre) non è esattamente quello che si dice “favorire la libertà di stampa”. Così si inquina il pozzo dell’informazione al quale dovrebbero invece attingere tutti senza timore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. 

Foto CIRO_PELLEGRINO

NB: Per eventuale riproduzione delle interviste si prega cortesemente di richiedere consenso preventivo. Grazie.

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Zitto e Nuota

Maria Petrescu per Intervistato, interessante iniziativa editoriale di video-giornalismo in Rete di cui è co-fondatrice, mi ha, appunto, intervistato su giornali, modelli di business e il futuro dell’editoria.

Venticinque minuti circa a tutto campo sui temi di maggiore attualità in questo momento per quanto riguarda lo stato attuale dell’industria dell’informazione e le prospettive per il futuro.

Proprio per quanto riguarda il futuro ragionevolmente prevedibile, e di quanto e come quel che accade oltreoceano possa essere d’insegnamento relativamente a ciò che potrebbe avvenire nel nostro Paese a distanza di tempo, a partire dal minuto tre del video, parlo di zuppe pronte, guerre puniche e rispolvero una datata barzelletta che si conclude con “zitto e nuota”.

Un’altra delle cose che dico in questi 25 minuti, registrati la settimana scorsa, è che la corsa affannosa ai volumi di traffico perlopiù non ha senso e ieri viene pubblicato questo articolo: “Publishers Opt Out of the Pageview Rat Race”

Se, dopo aver visto il video, aveste voglia di dirmi che ne pensate l’apposito spazio dei commenti è sempre aperto senza censure di sorta a tutto ciò che non sia apertamente spam promozionale, approvando persino agli insulti.

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Addio alla Carta?

Sabato 11 agosto Piero Vietti, Responsabile del sito internet del «Il Foglio», per l’edizione cartacea ha scritto un articolo di analisi delle evoluzioni dell’industria dell’informazione. Disamina a tutto campo alla quale ho avuto il piacere di fornire un mio personale minimo contributo.

Potete leggerne i contenuti nel formato PDF: Addio alla Carta

Update del 14.08: Ora l’articolo è disponibile anche online.

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