L’articolo redatto qualche giorno fa da Stefania Riccio, oltre ad essere ricco di spunti di riflessione e confronto ha innescato un dibattito meritevole di essere approfondito.
In “Dal blog al book” viene sostanzialmente fatta una critica dei social media, con particolare riferimento ai blog, sia in termini di autoreferenzialità quando riconducibili ad una persona, che di utilizzo scorretto o quantomeno fuorviante quando riferibili ad una impresa.
Tesi sposata e rinforzata quasi all’unisono nei commenti e sintetizzata da quelli espressi da Ferruccio Biraghi che afferma: I blog padronali, allo stesso modo di tutto quello che è finalizzato al profitto, sono costituzionalmente rivolti a persuadere. La comunicazione aperta e la costruzione di conoscenza sono aldilà della loro logica d’azione. La degradazione in book è legata agli utili e il modello redattore-lettore ripetono le strutture verticistiche dell’organizzazione di fabbrica, formaggini, servizi, notizie, inserzioni che siano. Seguito subito da Simona Avitabile con: L’abuso della parola community vorrebbe alleggerire la subordinazione delle audience e la primazia delle formule redazionali adottate, copia conforme dei modelli gerarchici delle aziende patrocinatrici, un trucco troppo evidente per convincere sugli obiettivi dichiarati.
Come dicevo, l’argomento è talmente vasto ed articolato che difficilmente può esaurirsi in spazi così ridotti. Tentiamo comunque di ampliare il dibattito e di raccoglierne, spero, gli spunti che verranno approfondendo alcuni aspetti citati in sintesi.
In generale, se da un lato Manuel Castells ricorda che “La logica di rete induce una determinazione sociale di livello superiore rispetto a quello degli interessi sociali specifici espressi nelle reti; il potere dei flussi afferma la sua priorità sui flussi del potere” , dall’altro Andrea Fumagalli afferma come “Siamo di fronte a un paradosso o meglio ad una potenziale contraddizione: il general intellect consente la creazione di un valore che trae linfa dalla cooperazione sociale, ma che viene distribuito tramite processi di espropriazione sociale”.
Se pensiamo al twitter-giornalismo, per citare non solo un argomento di attualità ma anche un settore economico storicamente al servizio del potere costituito, non possiamo che concordare con la frase citata di Castells. Dall’altro lato, rimanendo nello stesso ambito/settore, è di questi giorni, altrettanto, l’espropriazione effettuata da “La Repubblica” a danno di blogger ed utenti relativamente all’annosa questione delle dieci domande; coinvolti solo per essere sfruttati come amplificatori del messaggio del quotidiano senza coinvolgimento e riconoscimento alcuno da parte degli ideatori della campagna sociale, avvallando così la tesi di Fumagalli.
In ambito corporate l’utilizzo dei social media è stato inficiato fondamentalmente – nel nostro paese più che altrove, forse – da sedicenti esperti che pour cause ne hanno declamato e promosso per anni l’adozione presso le aziende, senza che fosse valutato l’impatto da nessun punto di vista. Molto spesso i social media sono stati descritti come la panacea low cost di tutti mali, senza che vi fosse una valutazione di coerenza rispetto al mix di comunicazione e, soprattutto, senza considerare l‘impatto sull’organizzazione interna e la coerenza tra questa e lo stile comunicazione effettuata all’interno dell’ impresa. E’ in questi casi, ahimè diffusi, che devo assolutamente concordare con Stefania Riccio quando afferma che: “Il blog diventa una raccolta di immagini e osanna, simile ai book di presentazione di oggetti, macchine o persone e la modernizzazione apparente finisce con il mostrare la vera identità”.
La storia della comunicazione via internet è lastricata di errori, spesso pagati a caro prezzo. Dalla creazione dei primi siti web alla presenza all’interno dei più noti social network, passando per second life e, appunto, i corporate blog abbiamo compreso, mi auguro, come l’importante non sia esserci ma saperci stare.
I modelli culturali e di comunicazione vanno rivisti e adattati, se necessario rivoluzionati, per uscire dalla logica top down [notare il linguaggio non verbale: quando parla di quanto è importante la rete per Fiat, incrocia le braccia e non guarda nella telecamera, ma divaga con gli occhi da una parte all’altra. Qualcuno potrebbe sostenere che non è molto sincero] ed ingaggiare la conversazione con le persone sul web e fuori da esso.
L’impresa va umanizzata e l’organizzazione interna dell’azienda adattata sia in termini di struttura che di coinvolgimento dei dipendenti. Più forte è il coinvolgimento, maggiore è la flessibilità, che serve alle performance collettive.
Troppo spesso ci si concentra sul mezzo non sul contenuto e le sue implicazioni. E’ ora che la cosiddetta visione olistica venga effettivamente applicata e non solamente declamata come avviene prevalentemente.
Il passaggio al web 2.0 è conclamato, la frattura causata dall’assenza della realizzazione effettiva di << modelli enterprise 2.0 >>, passato – auguriamoci – l’attuale – momento congiunturale potrebbe causare dicotomie e scompensi altrettanto gravi.
Buona parte della mappa è disponibile, non resta che utilizzarla adeguatamente mantenendo la rotta.
Nota: Sul tema si segnalano due interessanti conversazioni: una innescata dal sottoscritto che ha riportato uno dei commenti all’articolo ed un altra che verte sulla domanda se social media e fatturato siano compatibili.
Articolo originariamente redatto per Iriospark