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Il Social Care “De Noantri”

Dopo il social media marketing, il content marketing ed il marketing editoriale ”de noantri”, definizione romanesca nella quale ho pensato abbia un senso far ricadere “il peggio di” per una volta al mese,  è oggi la volta del social care, la cura del cliente attraverso social media e social network.

Una nota compagnia telefonica, che evidentemente utilizza un software per il social crm dotato di un risponditore automatico per i messaggi sulla propria pagina Facebook, incorre in un errore davvero grossolano. Come mostra lo screenshot sotto riportato, ad un messaggio che non aveva nulla a che fare con i propri servizi viene risposto: “abbiamo preso in carico la tua segnalazione”, segno di un problema non trascurabile, di una gestione che non è social care.

Social Fail Masked

Sull’automazione nella gestione dei social è da leggere l’articolo pubblicato ieri relativamente all’inserimento di tre nuovi social media editor al «The New York Times» e, appunto, il valore del contributo umano, anche, in questo ambito, in quest’area della comunicazione d’impresa.

Io, nel mio piccolo, ieri ho provato a farlo. A dialogare con le persone e dar ascolto e risposta alle loro istanze.

Se volete farvi un’idea di quante disattenzioni ed errori vi siano nella gestione della relazione attraverso social media e social network, su Facebook esiste una pagina chiamata, appunto, social media epic fails che quotidianamente raccoglie alcuni casi.

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Sbottonati

Il passaparola, non c’è ricerca che non lo confermi, è il mezzo più potente, più autorevole per le persone. La comunicazione da pari a pari funziona meglio di qualunque altro mezzo, il passaparola è il veicolo più efficace e  le persone hanno maggior fiducia in quello che dicono altre persone come loro. E’ per questo che le imprese cercano con tutti i mezzi di facilitare questo processo sia direttamente che attraverso i cosiddetti influencers.

In quest’ottica le condivisioni su social network e social media sono fondamentali. Le condivisioni sui social network sono elemento di sempre maggiore rilevanza nell’attuale ecosistema dell’informazione. Le condivisioni creano notorietà di marca, e costruiscono fiducia, grazie al passaparola online degli utenti sul valore di un brand o di un giornale per quanto riguarda più direttamente il comparto editoriale.

Su Nieman Journalism Lab sono stati pubblicati i dati su quante condivisioni vengono generate su Twitter attraverso l’utilizzo dei “bottoni” al fondo degli articoli [si anche di questo].

Sono stati presi in esame 37 siti, per tutti, tranne due [«The Globe and Mail» e la CNN], a confronto con la medesima analisi svolta nel maggio 2012, si rileva una diminuzione della percentuale di tweet generati dai bottoni. Nel maggio 2012, una media del 20,02% di tweets erano provenienti da quei pulsanti. nell’analisi condotta questo mese si è scesi al 12,61%.

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Difficile dire quali siano le cause di questo fenomeno, se si tratti del maggior consumo da smartphone dove spesso i siti non inseriscono [perche?] i bottoni, o se invece si tratti di una maggior diffusione di applicazioni dedicate quali Tweetdeck o HootSuite. Di fatto la rilevanza dei bottoni scende e andranno dunque trovate nuove strade, nuove forme per favorire la condivisione da parte delle persone.

Come si suol dire proprio su Twitter, sapevatelo.

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Sul tema delle condivisioni, da leggere assolutamente, se ve lo foste perso, l’articolo di Giuseppe Granieri per «La Stampa» “Le regole del contenuto e della condivisione”

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Content Marketing “De Noartri”

Altimeter ha pubblicato recentemente “The State of Social Business 2013: The Maturing of Social Media into Social Business”. La ricerca porta la firma di celebrati esperti internazionali del calibro di Brian Solis e Charlene Li.

Tra i diversi risultati emergenti si scopre, o meglio viene confermato, che il content marketing è in cima alla lista delle priorità della comunicazione d’impresa per il 2013.

Una superficiale ricerca su Google, effettuata utilizzando il nome dello studio, fornisce centinaia e centinaia di risultati di “blogger” che hanno scritto articoli e commenti al riguardo. Lo stesso avviene su Twitter e gli altri social media, social network.

Siccome è ormai noto che la pubblicazione di uno studio, di una ricerca sia uno dei modi migliori, e più diffusi, per far parlare di se, mi sono abituato da tempo a guardare prima dei risultati la metodologia così da poterne verificare attendibilità ed effettivo valore [ed eventualmente parlarne in questi spazi].

Nel caso specifico NON viene indicata la metodologia e la ricerca si basa su 65 casi. E’ chiaro dunque che con un campione tanto ridotto di aziende giungere a delle conclusioni affidabili è una chimera, ed è anche, a mio modo di vedere,  in assoluto contrasto con le policy dichiarate.

Il content marketing “de noartri”.

Content Mktg

PS: Prendetela, se vi pare, come una – minima – lezione di fact checking.

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La Pasta della Libertà

Personalmente sono più scandalizzato, o almeno altrettanto, dalla visione espressa sul ruolo delle donne che dalle affermazioni fatte relativamente ai gay durante l’intervento del presidente della Barilla a “La Zanzara” e mi sorprende che pochi si siano soffermati su questo aspetto. Per farsi un’opinione al riguardo vale la pena di ascoltare l’audio sotto riportato.

Sulla crisi di comunicazione generata dalle dichiarazioni di Guido Barilla alla trasmissione, a cavallo tra giornalismo e varietà, condotta da Giuseppe Cruciani su Radio24 è già stato detto di tutto e di più. Tra tutte le migliaia di parole spese sulla questione, sotto il profilo professionale la più equilibrata mi pare quella espressa da Enrico Sola ieri su «Il Post» [via].

Difficile stimare quanto questo peserà sulle vendite della nota azienda alimentare, ma che sia stata, ad essere benevolo, una grave ingenuità che ha generato una caduta di immagine credo sia fuori di dubbio.

Se, come ha obiettato qualcuno, le casalinghe italiane non usano Twitter è molto probabile, per non dire certo, che utilizzino Facebook dove altrettanto le critiche verso Barilla hanno avuto ampio spazio.

Trattandosi inoltre di un’impresa che come riferimento non ha soltanto il mercato domestico, se non  sono stati social media e social network a far giungere la questione alle orecchie dei consumatori del brand in tutto il mondo certamente lo hanno fatto le numerosissime testate giornalistiche che hanno dedicato ampio spazio alla vicenda.

La faccia, l’espressione di Guido Barilla nel video di scuse pubblicato nella “pre-home”, per dargli la massima rilevanza, del sito web aziendale, più che le parole, la dicono lunga sulla gravità in chiave di comunicazione d’impresa delle dichiarazioni rese alla radio di Confindustria [si legga anche il comunicato ufficiale aziendale sulla questione].

barilla_miscuso

Mentre tutto questo avviene, ed immagino che decine di PR abbiano perso molte ore di sonno per cercare di intervenire a calmare, per quanto possibile, le acque, il quotidiano «Libero» di stamani dedica la foto-notizia della prima pagina alla questione dandole grande evidenza e schierandosi a favore delle dichiarazioni, ritrattate, e della “famiglia normale”.

Nasce così “la pasta della libertà”, indesiderabile operazione di rebranding che, al di là di ogni altra possibile considerazione, non potrà che nuocere ulteriormente all’immagine aziendale del gruppo alimentare parmense.

Fossi nelle persone che lavorano alla comunicazione di Barilla un bel hashtag #BoycottaLibero [magari anche in inglese: #BoycottLibero] lo lancerei, forse servirebbe alla causa aziendale più di tante parole e tatticismi.

La pasta della libertà

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Le Agenzie di Pubblicità NON Usano la Pubblicità

Le agenzie pubblicitarie statunitensi non usano la pubblicità tradizionale, se non in maniera estremamente marginale, per farsi conoscere ed acquisire nuovi clienti.

Secondo quanto riporta eMarketer in base ad un indagine condotta alla fine di agosto emerge che al primo posto tra i mezzi, le tattiche utilizzate, vi sarebbero case studies e più in generale azioni di content marketing seguite dall’utilizzo diffuso di social media e social network. All’ultimo posto figura l’utilizzo di pubblicità tradizionale.

Se operate in un segmento di mercato B2B [ma anche B2C?] credo possiate togliervi qualsivoglia eventuale dubbio sulla strategia e le tattiche da adottare per farvi conoscere più e meglio ed acquisire nuovi clienti. Amen!

Modalità Promozionali Agenzie

Sul tema potrebbe interessarvi “Anatomia dei Contenuti di Successo” pubblicato l’8 luglio scorso.

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Motivazioni per le Condivisioni

Il passaparola, non c’è ricerca che non lo confermi, è il mezzo più potente, più autorevole per le persone. La comunicazione da pari a pari funziona meglio di qualunque altro mezzo, il passaparola è il veicolo più efficace e  le persone hanno maggior fiducia in quello che dicono altre persone come loro. E’ per questo che le imprese cercano con tutti i mezzi di facilitare questo processo sia direttamente che attraverso i cosiddetti influencers.

In quest’ottica le condivisioni su social network e social media sono fondamentali. Le condivisioni sui social network sono elemento di sempre maggiore rilevanza nell’attuale ecosistema dell’informazione. Le condivisioni creano notorietà di marca, e costruiscono fiducia, grazie al passaparola online degli utenti sul valore di un brand o di un giornale per quanto riguarda più direttamente il comparto editoriale.

Ma cosa spinge le persone a condividere un contenuto, quali argomenti e quali motivazioni vi sono dietro ad una condivisione?

Per dare una risposta a questa domanda Ipsos ha condotto nella prima metà di aprile di quest’anno un sondaggio online su un campione internazionale di 18.150 adulti in 24 nazioni del pianeta, Italia inclusa, i cui risultati sono stati pubblicati in questi giorni. Secondo quanto riporta l’istituto di ricerca tra i Paesi analizzati l’Italia rientra tra le nazioni il cui campione ha maggiore rappresentatività rispetto al totale della popolazione; il margine d’errore statistico è tra il 3 ed il 5%.

Nel complesso, il 71% degli intervistati ha dichiarato di aver condiviso qualcosa su un social media nel mese passato. La principale motivazione è quella di condividere “cose interessanti” [61% del totale] , seguita da “cose importanti” e “cose divertenti”  [entrambe 43% del totale].  Anche “far sapere agli altri in cosa credo” [37%] e “raccomandare un prodotto o un servizio” [30%] sono motivazioni popolari tra gli intervistati.  Il grafico di sintesi riassume la media generale del totale degli intervistati.

why-people-share-ipsos-2013

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Per quanto riguarda più direttamente il nostro Paese, dal dettaglio per nazione, emerge che gli italiani siano meno propensi della popolazione di altre nazioni alla condivisione di contenuti [52% vs 61%], mentre è forte la motivazione “ideologica” con il 42% del campione che dichiara di condividere contenuti per “far sapere agli altri in cosa credo” rispetto al 37% globale. Un attitudine confermata anche da quel 29% che afferma di condividere per “supportare una causa, un’organizzazione, qualcosa in cui crede”, in linea con la media generale e superiore a molte altre nazioni.

L’unicità dei contenuti è una motivazione debole [e abitando i social network – sigh! –  si vede] con solo il 10% degli italiani che ha questo fattore come motivazione alla condivisione. Anche la raccomandazione di un prodotto/servizio, pur coinvolgendo un quarto dei rispondenti, è un fattore meno motivante rispetto alla media generale ed alle attitudini della popolazione di altre nazioni.

Insomma, allo stato attuale, se volete incrementare ed accelerare le condivisioni, creare “buzz”, passaparola, dovete creare, o probabilmente meglio avere, un’ideale, una causa. In fondo è sempre stato così; ogni tanto vale la pena di ricordarselo.

Dettaglio Condivisioni per Nazione

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Le 80 Regole dei Social Media

Le 80 Regole dei Social Media realizzate da @ JeremyWaite, Head of Social Strategy Adobe EMEA, è un utile infografica realizzata nello stile di Pinterest che offre 80 suggerimenti e approfondimenti sul mondo dei social media.

Ci sono alcune perle di saggezza come la 42esima: “Se i fan iniziano la pubblicazione e la condivisione di contenuti senza il vostro permesso, offritevi di aiutarli.” E, ancor più, la 67esima: “Dare via iPad gratuiti a persone su Facebook è bene – fino a quando non si ha intenzione di costruire un rapporto duraturo con loro “.

Da stampare ed appendere in ufficio.

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Come Scegliere un Hashtag

Nato con Twitter l’utilizzo degli hashtag si è sempre più diffuso e da metà giugno anche Facebook ne ha introdotto l’utilizzo avendone probabilmente verificato la popolarità d’uso su Instagram, di cui è proprietario come noto, anche se i primi dati sembrerebbero mostrare un’adozione relativamente limitata in chiave di comunicazione d’impresa.

Gli hashtag prevalentemente servono per rendere più facilmente identificabile il contenuto diffuso e dunque, a parità di condizione, a facilitarne la diffusione, la reach. Come spesso avviene, anche in questo caso, vuoi per ingenuità o per inesperienza, molto spesso dall’uso si passa all’abuso o comunque all’utilizzo non corretto.

Per facilitare la comprensione di come e perchè utilizzare un hashtag Twitter sul suo blog dedicato all’advertising ha diffuso in questi giorni un diagramma di flusso, un’infografica che sintetizza come sceglierne uno e come, appunto, utilizzarlo.

Visti i numerosi casi di cattivo utilizzo, anche da parte di brand importanti, decisamente utile.

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Incredibile

Adobe ha commissionato a Edelman Berland una ricerca sulla comunicazione d’impresa. Lo studio: “The State of Online Advertising” è stato condotto tra ottobre 2012 ed aprile 2013 in sette diverse nazioni ed ha coinvolto 8750 persone e 1750 professionisti dell’area marketing.

A metà giugno sono stati rilasciati sia i risultati generali che il dettaglio per ciascuna delle nazioni oggetto dell’indagine.

Si conferma per l’ennesima volta che passaparola tra conoscenti ed amici e la comunicazione tra pari sono le più credibili e dunque le più efficaci. Seguono i media tradizionali: televisione e quotidiani [di carta].

Le pagine aziendali sui diversi social media sono la fonte meno credibile, paradossalmente per gli stessi professionisti del marketing.

Adobe

Si tratta ancora una volta di un chiaro indicatore di come nella maggior parte dei casi, con le dovute eccezioni delle generalizzazioni che però restano tali, anche i social media vengano utilizzati prevalentemente dalle imprese con finalità smaccatamente promozionali, come testimonia l’ampio utilizzo di offerte ed appunto promozioni, e non per stabilire una relazione e dunque una conversazione con le persone sulla base dei loro interessi.

Sono trascorsi decenni dalla famosa locuzione “il medium è il messaggio” attraverso la quale McLuhan cercava di spiegare che i media non sono neutrali, la loro stessa struttura produce infatti un’influenza sui destinatari del messaggio che va al di là del contenuto specifico che veicolano, e più di un lustro dall’avvento del “Web 2.0”.

La fiducia è importante e viene dal coinvolgimento su affinità su interessi comuni non dall’interruzione invasiva, continuare a non tenerlo in considerazione, in pratica, nella comunicazione d’impresa è un nonsense.

Bonus track: Sul tema vale assolutamente la lettura l’intervista di Apogeo all’amico Daniele Chieffi “Aziende online: come si cambia per non morire”

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Sponsored Stories

Le sponsored stories, sono sempre esistite e non c’è nulla che indichi che cesseranno di esserlo, in gergo, in maniera volgare ma efficace, vengono comunemente chiamate “marchette”. In maniera più o meno velata, dal box redazionale su una determinata azienda/marca vicino alla pagina pubblicitaria acquistata dalla stessa a forme più sofisticate, o più subdole, a seconda dei punti di vista, la copertura giornalistica è da sempre influenzata dalla comunicazione pubblicitaria.

Da tempo le sponsored stories, parte di quello che viene chiamato native advertising, hanno preso piede nei siti d’informazione con HuffPost US ad introdurlo già nel 2010 ed i casi più recenti di Forbes, Atlantic e BuzzFeed a seguire, solo per citare i più noti.

Secondo un sondaggio di fine 2012 negli Stati Uniti il 50% circa degli investitori pubblicitari quest’anno sperimenteranno questo format di comunicazione e da oggi «The Washington Post» rompe il tabù sulla questione da parte dei grandi quotidiani nazionali introducendo per la propria edizione online BrandConnect, spazio a disposizione delle imprese all’interno del sito web del quotidiano per veicolare i propri contenuti. E se il quotidiano statunitense non si occuperà della creazione dei contenuti di marca altri, a cominciare dal già citato HuffPost US, che produce 1,600 articles al giorno, pari ad un “pezzo” ogni 58 secondi, sfruttano quest’abbondanza fornendo direttamente alle aziende i contenuti.

Il principale motivo di questa tendenza è legato all’inefficacia dell’advertsing display, quelli che chiamiamo banner per semplificare, che si traduce in un costante calo del valore riconosciuto per CPM legato esclusivamente alla logica dei volumi di traffico, delle pagine viste ed ha, giustamente, sempre minor appeal presso gli investitori pubblicitari.

BeyondDisplay_charts

Un numero crescente di siti d’informazione, con modalità e format diversi, sta dunque cavalcando l’onda delle sponsored stories come modo di recuperare contribuzione.

Si tratta a mio avviso, al di là delle singole specificità, dell’unica risposta sensata che l’industria dell’informazione può pensare di dare al brand journalism ed allla tendenza che vede le aziende sempre più  diventare loro stesse media companies.

Ovviamente, come dimostra il caso Atlantic-Scientology sono necessarie le opportune attenzioni e, altrettanto, l’opportuna chiarezza nei confronti del lettore per evitare l’effetto boomerang, ma si tratta sicuramente di un filone che apre diverse prospettive consentendo di monetizzare i volumi di traffico e  di instaurare, finalmente, un rapporto tra editori ed aziende che non sia quello da venditore di pixel ma di consulente di comunicazione a tutto campo.

Se gestite in maniera adeguata credo davvero che le storie sponsorizzate, e tutto quello che può ruotarci attorno, possano essere parte del futuro dei giornali online entrando a pieno titolo nel mix di comunicazione delle imprese.

Native ADV

Bonus track: “Giornali che fanno soldi (in USA). nessuna formula magica solo talento, leadership e qualità” – da leggere.

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