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La Differenza tra Notizie e Informazione

Il digitale ha completamente stravolto, rivoluzionato come si suol dire, l’ecosistema dell’informazione. Twitter, newswire per eccellenza, è fonte primaria di notizie per i giornalisti stessi che vi attingono abbondantemente. La notizia è di per se stessa commodity, prodotto indifferenziato di scarso valore per il quale, rebus sic stantibus, le persone mostrano una bassissima propensione ad un riconoscimento economico, a pagare per ottenerla.

Notizia Tweet

Come riuscire dunque  a dare valore aggiunto, attrarre la giusta attenzione delle persone e [sperare di] ricavarne un introito è una delle domande di fondo a cui dare una risposta.

La metafora delle conchiglie suggerita da Annamaria Testa è illuminante in tal senso. Proviamo a guardare le due immagini sotto riportate immaginando di passeggiare in una spiaggia. Nel primo caso si presterebbe poca, o nulla, attenzione alle conchiglie sparse sull’arenile, forse, addirittura, le si calpesterebbero con noncuranza. Nel secondo caso  invece, credo non possano esserci dubbi al riguardo, ci si soffermerebbe, la nostra attenzione ed il nostro interesse per le conchiglie che formano un cuore sarebbe naturale, probabilmente scatteremmo una fotografia da condividere sui social network.

Ecco è questa l’immagine mentale. Il trattamento informativo tradizionale non è più valido, o quantomeno non crea un livello di interesse ed attenzione sufficiente a valorizzarlo. Il valore aggiunto sta nel dare forma e senso alla notizia. Questa è la differenza tra notizie e informazione.

Conchiglie Sparse

Conchiglie Cuore

Per approfondire, vale assolutamente il tempo investito nella lettura, l’articolo pubblicato in questi giorni su Nieman Journalism Lab: “Connecting the dots”

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La Fiducia è Una Cosa Seria?

La fiducia è una cosa seria recitava in conclusione lo spot di una nota marca di formaggi la cui mollezza richiama, anche nel nome, il deprimente stato della nostra nazione.

Se già dai risultati del 47° rapporto del Censis emergeva con chiarezza come per il 70% della popolazione [71% nei giovani] “gli apparati dell’informazione tradizionale tendono a manipolare le notizie”, la conferma arriva ora dai risultati dell’indagine Demos & Pi sui mezzi di informazione.

Dalla sintesi dei risultati pubblicati ieri emerge con chiarezza  come sia la Rete, per coloro che la utilizzano evidentemente, sia il mezzo dove l’informazione è più libera e indipendente. La televisione è un medium non  fazioso per poco più di un quinto degli italiani mentre i quotidiani lo sono per poco più del 10% degli intervistati. I settimanali sono il mezzo con la peggior reputazione.

Informazione e Libertà Demos Dic 2013

In calo costante la fiducia nei confronti dei principali telegiornali e canali all news, ad eccezione di Rai News24. Lo stesso dicasi per i programmi di approfondimento, ad esclusione di Report.

Tra i programmi televisivi di informazione che godono di maggior fiducia spicca Striscia la Notizia che, seppur anch’esso in calo, gode del credito del 53.9% degli italiani. Un valore superiore a tutti i TG tranne quello del terzo canale RAI.

La fiducia è una cosa seria?

Evoluzione Canali di Informazione

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I Consumi Mediatici degli Italiani

È stato presentato venerdì 7 dicembre il 47° rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese, dell’Italia. I risultati sono liberamente scaricabili, previa registrazione, sul sito web dell’istituto di ricerca socio-economica. All’interno del rapporto, come ogni anno, è contenuto un capitolo che analizza i consumi mediatici degli italiani e la loro evoluzione. Per ciascun medium viene riportato l’utilizzo considerando una frequenza di almeno una volta alla settimana.

Si conferma il ruolo intramontabile della televisione, che continua ad avere un pubblico di telespettatori che coincide sostanzialmente con la totalità della popolazione, con un rafforzamento però del pubblico delle nuove televisioni: +23.6% di utenza complessiva per le tv satellitari rispetto al 2012, +16.3% la web tv e quasi triplica [+272%] la mobile tv.

Cala del 4.4% la lettura di quotidiani [cartacei] a pagamento, mentre crescono del 2.4% i quotidiani online, che però hanno una penetrazione per meno della metà di quelli tradizionali come emergeva anche dalla mia analisi. La penetrazione dei siti d’informazione è superiore a quella dei quotidiani online e si assesta al 34.3% della popolazione del nostro Paese [contro il 43.5% dei quotidiani tradizionali] con una crescita del 3.9% rispetto al 2012.

In una nazione dove [sigh!] quasi la metà della popolazione non legge nemmeno un libro all’anno, il consumo di e-book triplica rispetto all’anno precedente e raggiunge una penetrazione del 5.2% della popolazione.

La tavola di sintesi sotto riportata riassume i dati per mezzo e la loro evoluzione. Per facilitare la lettura ho evidenziato alcune voci.

Consumi Mediatici Censis 2013

Nel web domina la consultazione dei motori di ricerca che operano anche da aggregatori di notizie, come Google [al 46,4% di utenza per informarsi nel 2013], così come salgono gli impieghi di Facebook [37,6%] e YouTube [25,9%] come fonte di notizie. Praticamente raddoppiano l’utenza le app informative per smartphone e tablet attestandosi al 14,4%, e di Twitter, passato dal 2,5% al 6,3%. Calo non trascurabile dei siti web di informazione, scesi dal 29,5% del 2012 al 22,6% nel 2013, dei quotidiani online [21,8% Vs 20%] e dei siti web dei telegiornali [17,4% Vs 12,9%].

Ancora più evidente la dinamica se si analizza il dettaglio per fasce di età. Gli strumenti di informazione preferiti dai giovani d’età compresa tra i 14 e i 29 anni, oltre ancora una volta a i telegiornali, sono: Facebook [71%], i motori di ricerca [65,2%] e YouTube [52,7%]. Tutti gli altri mezzi, eccetto i giornali radio al 40,2% , sono molto lontani dalla soglia del 50%.

È la conferma della bocciatura sonora dei nativi digitali del nostro Paese, anche, nei confronti dei quotidiani online. Un campanello di allarme non trascurabile. Forse prima di portare i quotidiani in classe qualcuno tra gli editori parrebbe aver bisogno di ripetizioni sul coinvolgimento dei giovani. Qualche idea al riguardo, se posso dirlo, credo di averla.

Consumi Mediatici per età Censis 2013

Una parte delle motivazioni della relativa attuale inconsistenza dei quotidiani online viene fornita dalla parte qualitativa della ricerca del Censis che indaga le opinioni degli italiani sull’informazione nel nostro Paese.

Emerge come per il 70% della popolazione [71% nei giovani] “gli apparati dell’informazione tradizionale tendono a manipolare le notizie”. È forte la consapevolezza sul valore del giornalismo partecipativo, con il 57% che dichiara che “chiunque è testimone di un evento può fare informazione” e del superamento del sistema tradizionale d’informazione per oltre un terzo della popolazione. Opinione, vissuto, che arriva oltre il 44% per i giovani, per i nativi digitali.

L’inadeguatezza del trattamento informativo prescinde dalla piattaforma attraverso la quale viene erogata. Il problema non è che i giovani non leggono i quotidiani cartacei. Il problema è che non riconoscono, o riconoscono solo in minima parte, la suddivisione tradizionale di ciò che è informazione e di chi sia titolato a farla e, evidentemente, non apprezzano il trattamento che le testate tradizionali fanno della stessa.

Il problema è il contenuto ed il contenitore, anche online. Proverò ad approfondire a brevissimo utilizzando un’interessantissima metafora sulle conchiglie suggeritami da Annamaria Testa pochi giorni fa. Stay tuned.

Opinioni Informazione Censis 2013

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Il Futuro di Giornalismo e Giornalisti

Venerdì 16 novembre scorso, all’interno dell’inserto dedicato al mondo del lavoro di «la Repubblica», è stato pubblicato un mio articolo di sintesi e analisi dello scenario dell’informazione tra carta e Web [vedi immagine – 1 di 8 pagine – non autorizzata riproduzione].

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All’interno di questo sono state pubblicate due interviste, realizzate dal sottoscritto, sul futuro del giornalismo e dei giornalisti a Marco Bardazzi, Caporedattore Digitale del quotidiano «La Stampa», ed a Ciro Pellegrino, giornalista del quotidiano all digital Fanpage e responsabile del coordinamento Giornalisti Precari Campani.

Per ragioni di spazio una parte delle interviste è stata tagliata. Ho ottenuto il permesso alla pubblicazione integrale delle interviste e credo che, stante la possibilità, sia utile ed opportuno proporle poichè da due prospettive diverse offrono uno spaccato tanto qualificato quanto interessante, in entrambi i casi, sul futuro prossimo venturo dell’informazione nel nostro Paese.

L’intervista a Marco Bardazzi si focalizza sull’ evoluzione del giornalismo e le nuove professionalità richieste, mentre quella a Ciro Pellegrino verte principalmente su evoluzione del Giornalismo, precariato e freelance.

Buona lettura.

Intervista Marco Bardazzi

  1. Qual’è l’impatto dei media digitali sul giornalismo? 

Si abusa spesso del termine “rivoluzione”, ma in questo caso è adeguato. Non siamo di fronte a un semplice passaggio tecnologico o a un nuovo medium che va ad aggiungersi ad altri. E’ un vero cambio di paradigma. La competizione per l’attenzione del lettore è aumentata a dismisura. Tutto questo si traduce in una sfida per i giornali, ma anche in un’enorme opportunità di accedere a nuove forme di racconto. I giornali sono in crisi, inutile negarlo. Ma il giornalismo non è mai stato meglio.

  1. Come cambia il mestiere del giornalista? 

Le regole base sono sempre le stesse e vanno difese: una notizia è tale quale che sia la piattaforma su cui è distribuita. Trovarla, verificarla, metterla in un contesto richiede lo stesso metodo da testimoni esperti che i giornalisti hanno sviluppato nel tempo. Occorre però imparare a usare nuovi strumenti digitali. E bisogna essere consapevoli che è cambiato l’ecosistema. Le 5 W del giornalismo valgono sempre (Who, What, When, Where e Why), ma le prima 4 sono sempre più alla portata di tutti: il nostro valore aggiunto si concentra soprattutto sull’ultima, Why? Spiegare e approfondire.

  1. Le informazioni stanno su Twitter ed il pubblico su Facebook. Poco tempo fa “La Stampa” ha reso pubblico il decalogo interno per l’uso dei social media da parte dei propri giornalisti. L’impatto di social media e social network come sta cambiando il giornalismo ed il mestiere del giornalista? 

A La Stampa incoraggiamo i colleghi a utilizzare i social media, perché siamo consapevoli che è finito il tempo dell’informazione broadcast, a senso unico, e si entra in un’era sempre più sharing, di condivisione del racconto con le persone che sono anche i nostri lettori. Questo arricchisce il lavoro giornalistico. Ci siamo dati qualche regola interna non per fissare dei paletti burocratici, ma per aiutarci a ricordare alcune regole fisse di buon senso anche nel mondo digitale. Ma è un decalogo che evolve continuamente con il mutare della Rete.

  1. Come cambia la redazione giornalistica con il digitale? 

Nel nostro caso è cambiata e sta cambiando profondamente, fino alla disposizione delle postazioni di lavoro. Da un anno abbiamo creato un’innovativa redazione multipiattaforma con un disegno inedito, a cerchi concentrici: un “hub” centrale in cui si trovano le figure-chiave del giornale (carta e digitale insieme, integrati), con i vari desk disposti intorno. Abbiamo cambiato sistema editoriale, orari, turni. Il tutto per favorire l’integrazione e uno scambio di contenuti più semplice possibile sulle varie piattaforme, cartacee e digitali.

  1. Il “nuovo giornalismo” passa solo dai giornalisti o anche dagli editori? 

E’ un lavoro che va fatto insieme anche perché il digitale, rispetto alla carta, richiede un livello maggiore di collaborazione e coinvolgimento tra giornalisti, tecnici, sviluppatori, grafici, marketing. Occorre anche uno sforzo di abbattimento di molte barriere che esistono nei giornali. Poi bisogna innovare, e in questo gli editori sono decisivi. La nuova redazione de La Stampa, l’innovativa Fiat 500L “Web Car” che abbiamo lanciato da un mese, il laboratorio di giornalismo MediaLab e molte altre iniziative che facciamo, richiedono un editore che ci crede. Sarà interessante vedere cosa faranno in questo senso nuovi editori come Jeff Bezos, appena sbarcato al Washington Post.

  1. Il citizen journalism, il giornalismo partecipativo, è alleato o rivale dei giornalismo professionale? 

E’ una realtà di cui tenere conto e che va considerata un arricchimento per il giornalismo, non certo come un avversario. Ma senza mitizzare: sui siti delle grandi testate i lettori non vengono per cercare citizen journalism, ma giornalismo professionale arricchito dalla partecipazione di tanti altri protagonisti.

  1. La sopravvivenza dei mestieri legati alla scrittura, del giornalismo, è profondamente legata alla capacità di rinnovarsi e di adattarsi alla tecnologia e ai nuovi metodi di lavoro da essa imposti. Nascono nuove professionalità che un tempo non esistevano quali il “Social Media Editor” o il “Data Journalist” per fare due esempi. Quali le professionalità richieste, il necessario livello di specializzazione? E quale, se possibile a definirsi, tra tutte la più importante? 

Per fare i giornalisti servono i requisiti di sempre: curiosità, intuito, capacità di cogliere e raccontare i fenomeni, buona scrittura. Il tutto indubbiamente oggi va integrato, più che in passato, con una predisposizione all’uso delle tecnologie. Nelle redazioni c’è sicuramente più bisogno di professionisti flessibili che siano a loro agio con i video, le immagini, la multimedialità. E con i numeri: il data journalism sarà il grande boom dei prossimi anni.

  1. Nel rinnovamento del mestiere di giornalista quale è, e quale dovrebbe essere, il ruolo delle scuole di giornalismo? 

Io ho cominciato facendo la classica gavetta, e così buona parte della mia generazione e di quelle precedenti. Oggi è diventato quasi impossibile e le scuole sono un percorso obbligato per l’accesso alla professione. Si è perso un po’ l’apprendistato, ma complessivamente è un salto di qualità. Le scuole quindi sono decisive, ma come le redazioni anche loro devono innovare e tenere il passo.

  1. Quali sono “gli attrezzi del mestiere” per i professionisti dell’informazione, per i giornalisti? 

Non vorrei sembrare vecchio, ma il primo requisito resta quello di leggere e saper leggere i giornali e le agenzie: non si vive di solo Twitter. Quanto agli strumenti operativi, a mio avviso la maggiore innovazione degli ultimi anni per i giornalisti è stato il tablet. Può fare mille cose, per chi impara a usarlo bene.

  1. Nel suo libro “L’ultima notizia” scrive che “nelle battaglie tra i giovani leoni dell’informatica e le vecchie volpi dell’editoria, sono queste ad avere la peggio”. Però anche nel giornalismo il precariato è ormai una realtà per la maggior parte dei giovani. Quali i suoi consigli per emergere – e farsi assumere – in un grande giornale nazionale? 

Farsi assumere è diventato complesso, per una serie di motivi molti dei quali si spera siano congiunturali. Un consiglio di fondo: rendersi indispensabili. I giornali devono innovare, ma non hanno tutte le risorse professionali al loro interno per farlo. Nella caccia al posto di lavoro, è avvantaggiato chi sa offrire risposte alle nuove domande di contenuti di qualità digitali che stanno emergendo: video, data journalism, visualizzazioni, infografiche. I giornali, che hanno difficoltà ad assumere, possono però trovare forme creative per trasformarsi anche in incubatori di start-up. L’innovazione, nel nostro mondo, passerà da qui.

Torino Foto Luigi Sergio Tenani: PRESENTAZIONE DEL LIBRO "UN ISTANTE PRIMA" DEL MAGISTRATO STEFANO DAMBRUOSO ED IL GIORNALISTA VINCENZO R.SPAGNOLO

Intervista a Ciro Pellegrino

  1. Il livello occupazionale dei giornalisti negli ultimi anni ha avuto un forte ridimensionamento con prepensionamenti, cassa integrazione e licenziamenti. Si tratta solo del crollo dei ricavi dalle vendite di copie ed il tracollo degli investimenti pubblicitari sulla carta stampata o le vere motivazioni sono da ricercarsi altrove? 

È evidente che ci sono tantissime ragioni. L’informazione online e molteplici nuovi modelli e nuovi prodotti editoriali; i contenuti generati dagli utenti che in un clima di crescente diffidenza verso i media sono finiti per essere, in molti casi, più autorevoli del prodotto giornalistico, agli occhi dei lettori. E poi l’enorme ritardo nel rendersi conto che un cambiamento stava travolgendo un sistema. Ora che è cambiato tutto si raccolgono i cocci, ma è evidente che non possiamo confrontarci più con un modello imprenditoriale vecchio di un secolo.

  1. Secondo il rapporto “La Fabbrica dei Giornalisti” stilato da LSDI – Libertà di Stampa e d’Informazione – sono oltre 112.000 in Italia:il triplo che in Francia, il doppio che in Gran Bretagna. Ma solo il 45% sono “attivi ufficialmente’’ e solo 1 su 5 ha un contratto di lavoro dipendente. E’ necessaria una nuova regolamentazione che restringa l’accesso alla professione giornalistica o la soluzione va ricercata in altro modo? 

La tessera da giornalista in Italia è stata per anni uno status symbol piuttosto che la certificazione di una professionalità. Quanti giornalisti pubblicisti che non hanno mai pubblicato niente di niente esistono? La legge dice che dovrebbero dimostrare la loro attività. Ma come? È necessaria una legge nuova: quella che abbiamo fa acqua da tutte le parti. Anziché discutere sull’abolizione o meno dell’Ordine dei giornalisti, questione che in Italia scatena guerre civili, servirebbe una normativa moderna, capace di dichiarare giornalista una persona solo al termine di un serio percorso di studio. 

  1. E’ il giornalismo ed il mestiere di giornalista ad essere in crisi oppure è solo un problema di individuazione di nuovi modelli di business da parte degli editori? 

L’Italia è rovinata, ma non al punto da essere insensibile all’informazione. Se guardi non solo su base nazionale ma anche su quella locale c’è “fame” di notizie. Ci sono più festival del giornalismo che giornalisti, in Italia. Ci sono più dibattiti sull’informazione ogni giorno. Secondo te il problema è davvero la crisi del giornalismo? Non dovremmo forse guardare in casa degli editori italiani, delle loro proprietà, dei loro interessi? Qual è davvero il business di un editore italiano? Fare un prodotto capace di interesse e quindi spendibile sul mercato oppure rispondere ad altre logiche? 

  1. Scuole di giornalismo fabbrica di disoccupati? Quale dovrebbe essere il ruolo loro ruolo e su quali competenze dovrebbero focalizzare la loro attività per garantire un futuro lavorativo ai loro iscritti? 

Le scuole di giornalismo hanno fallito. Costano troppo; non preparano chi le frequenta alla realtà della redazione, alla ricerca sul campo. E poi, pagare per garantirsi un praticantato, diventare giornalista professionista e affrontare un universo incapace di assumere giovani mi dici a che serve? Io penso ad un percorso universitario e realmente selettivo. Sai quando mi sento veramente umiliato come giornalista italiano? Quando vado al Festival internazionale del giornalismo di Perugia e vedo miei coetanei o colleghi anche più piccoli di me in ruoli strategici di grandi testate. Umili, preparatissimi e responsabili. In Italia non accade. Alla Columbia, la più importante scuola di giornalismo del mondo, ci sono focus, seminari sui social. E qui siamo ancora a chi ha più followers su twitter o a chi li compra fasulli. Una rovina.

  1. E’ il digitale, Internet, che hanno causato la crisi di questa professione o la spiegazione è un’altra? 

Mi risulta difficile credere che allargare una strada possa essere d’intralcio a chi vuole percorrerla. Internet ha allargato la via della notizia che oggi viaggia a velocità pazzesche. Forse dobbiamo far capire alla gente che certi contenuti di qualità vanno pagati e il “tutto gratis” non è un sistema più percorribile? Sono d’accordo. Nel frattempo, però, pensiamo anche che il lavoro di chi fa informazione va pagato: in Italia questo è l’ultimo problema che ci si pone.

  1. Oltre a prepensionamenti, cassa integrazione e licenziamenti, è il precariato l’altra faccia della crisi della carta stampata. Quanto è diffuso oggi il fenomeno e quali sono le implicazioni nell’esercizio della professione giornalistica? 

Otto nuovi giornalisti su dieci sono destinati a rimanere precari per anni. Lo dicono i dati che abbiamo raccolto nel corso degli ultimi tre anni. Di questi otto almeno tre lasceranno il mestiere. E dei restanti cinque una parte vivacchia tra un lavoro a nero e uno sottopagato e altri entrano in contatto con una redazione sperando l’inferno della collaborazione sottopagata con partita iva porti, alla fine, all’agognato contratto che spesso non arriva. Le aziende preferiscono prepensionare i vecchi giornalisti e farli rientrare dalla finestra come consulenti. Alla faccia del ricambio generazionale.

  1. A dicembre 2012 è stata approvata la legge per l’equo compenso per i giornalisti lavoratori autonomi ma resta ancora inapplicata perché non ne sono state emanate le norme attuative. Qual è il problema? 

Il problema è che editori, sindacato e ordine non si mettono d’accordo su come quantificare un equo compenso senza correre il rischio di stilare un tariffario, vietato dalle norme europee sulla libera concorrenza nelle professioni. Di recente ho incontrato il sottosegretario all’Editoria Giovanni Legnini: mi ha detto di avere convocato la Commissione equo compenso per il prossimo 8 ottobre e che in caso di mancato accordo tra le parti prenderà in mano la situazione e presenterà una proposta del governo. La promessa è di arrivare all’equo compenso entro la fine del 2013. Attendiamo fiduciosi, si dice così?

  1. In molte regioni è stato creato il coordinamento dei giornalisti precari. Lei che è responsabile di quelli della Campania potrebbe spiegarci qual è il ruolo e l’incisività di queste iniziative? 

I coordinamenti oltre che in Campania sono attivi in Veneto, in Toscana, a Roma, in Abruzzo. Di recente anche a Milano e in Puglia e in molte altre regioni. L’obiettivo è quello di ricordare che ci sono anche i precari del giornalismo. Sai che siamo bravissimi a raccontare i guai degli altri ma non i nostri? C’è ancora qualcuno che parla di noi come di una casta, ignorando l’enorme disparità tra il sempre più sparuto gruppo di contrattualizzati e l’enorme platea di precari, atipici e freelance.

  1. Il mito del posto fisso è un miraggio ormai anche nel mondo del giornalismo o esistono “trucchi”, piccole grandi attenzioni per riuscire ad entrare stabilmente nella redazione di un quotidiano? 

Cosa ti dovrei rispondere? Un bel trucco è la raccomandazione, come nella migliore tradizione italica. Ma nemmeno quella funziona come prima, almeno così mi dicono. A parte questo molti colleghi sono riusciti a vedere riconosciute le loro ragioni con le cause di lavoro, ma è sempre più difficile. Io non ho mai pensato che il giornalismofosse un mestiere tranquillo. Ma pensavo che avrei avuto problemi per le notizie “scomode”. E invece l’ostacolo da freelance è stato quello di farsi pagare. E quello da disoccupato è stato inseguire l’editore fallito per vie legali e vedersi riconosciuti stipendi arretrati e Tfr.

  1. Molti sostengono che il mestiere del giornalista sia sempre più per “figli dei ricchi”, per persone che possono permettersi anni di mancati, o comunque scarsi, guadagni. E’ davvero così? 

Io sono figlio di un falegname e di una casalinga e vengo da Napoli. Ricco non sono. C’è bisogno anche di incontrare le persone giuste, non è sempre facile. Penso che la situazione sia comune anche ad altre professioni. Il problema è anche un altro: noi maneggiamo l’informazione. Un compito del genere nelle mani di un professionista sotto ricatto (e chi è sottopagato lo è , sempre) non è esattamente quello che si dice “favorire la libertà di stampa”. Così si inquina il pozzo dell’informazione al quale dovrebbero invece attingere tutti senza timore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. 

Foto CIRO_PELLEGRINO

NB: Per eventuale riproduzione delle interviste si prega cortesemente di richiedere consenso preventivo. Grazie.

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Immaginare [un Quotidiano] senza Immagini

All’inizio di questa settimana Poynter ha pubblicato i dati della American Society of News Editors sulla perdita di posti di lavoro tra i giornalisti statunitensi dal 2000 al 2012.

Colpisce che anche gli online producers, per i quali ci si aspetterebbe un’espansione, siano colpiti dalla crisi con una perdita occupazionale non trascurabile, ma il maggior calo percentuale [-43%] è per i redattori del settore fotografico e videografico dei giornali americani.

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Il quotidiano francese «Libération», che della fotografia e della qualità delle immagini ha sempre fatto un proprio elemento distintivo, un punto di forza del giornale [basti vedere la prima pagina di Libération Week-end di questa settimana], provocatoriamente è uscito in edicola giovedì con un edizione completamente senza immagini.

Nell’editoriale di spiegazione della scelta si legge “Nel corso degli anni, la nostra passione per la fotografia in tutte le sue forme, non ha mai vacillato. Non per  abbellire, per scioccare o illustrare, ma perché la foto ha messo gli occhi su gli usi e i costumi del nostro mondo.”, proseguendo “tutti sanno della situazione disastrosa in cui i fotografi della stampa si ritrovano, specialmente  i reporter di guerra che hanno messo le loro vite a rischio per miseri guadagni”.

Al  posto delle immagini sono state inserite una serie di cornici vuote che creano uno spazio di silenzio piuttosto scomodo dell’ovvia mancanza di informazioni.

Un forte segno di interrogazione. Svuotamento di qualsiasi rappresentazione che offrendo solo parole evidenzia, in caso di dubbio, quanto il linguaggio delle immagini sia essenziale per la comprensione.

Sotto riportate alcune delle pagine del quotidiano rese disponibili dal «British Journal of Photography”. Comment is free.

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Pagherete Caro, Pagherete Tutto?

Lightspeed Research, per conto di Kantar Media, ad agosto di quest’anno ha indagato la propensione degli internauti britannici, delle persone a pagare per l’informazione online.

Dai risultati, pubblicati in questi giorni, emerge, o forse per meglio dire si conferma ancora una volta, come la disponibilità a pagare sia assolutamente minima. Complessivamente solo il 4% degli intervistati afferma di aver pagato per dei contenuti informativi online e l’80% afferma che smetterebbe di visitare il sito web di una testata se questa adottasse un paywall.

Il 43% dei rispondenti afferma che non ci sia motivo di pagare per avere informazione che altrove è disponibile gratuitamente ma il 21% dice che può avere senso se il contenuto è di nicchia, specializzato.

Al di là della conferma della scarsissima propensione a pagare, che emerge in tutte le ricerche sul tema, nella mia interpretazione, i dati dicono da un lato che le notizie sono perlopiù unbranded e che dunque senza brand non c’è valore aggiunto, non c’è speranza di sopravvivenza, e dall’altro lato che la specializzazione paga anche da questo punto di vista.

Non è necessario guardare esclusivamente ai successi del «Financial Times» in tal senso ma è sufficiente vedere l’andamento delle vendite di copie digitali nel nostro Paese per capirlo.

Paywall UK

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Il Muro Intorno al Mondo

Da ieri il quotidiano spagnolo «El Mundo», secondo giornale per vendite dopo «El Pais», “appendice” spagnola di RCSMediagroup che proprio a quella partecipazione deve una parte consistente della propria situazione debitoria, ha rinnovato il proprio sito web e deciso di innalzare un metered paywall intorno ai propri contenuti, intorno al suo sito internet, il più visitato fra quelli di tutti i mezzi d’informazione europei in lingua spagnola.

Nei due video sottostanti i cambiamenti principali del quotidiano e la campagna di comunicazione lanciata per l’occasione.

Il metered paywall consentirà di visionare sino ad un massimo di 25 contenuti mensilmente senza dover pagare. Da qui le opzioni sono tante e tutte a pagamento: abbonamento a Orbyt, l’equivalente della futura “edicola italiana” attraverso la quale in due anni sono stati raggiungi 85mila abbonamenti a «El Mundo», a prezzi da saldo, e che da diritto all’acceso a tutte le versioni del quotidiano, la sottoscrizione all’edizione cartacea, che da accesso a tutti i contenuti del sito web. o pagare solo per una particolare applicazione.

Il prezzo richiesto [che pagheranno?] gli utenti varia da 2,95€  per le applicazioni di telefonia mobile a 4,95€ per la versione per tablet sino ai 10€ per la sottoscrizione di Oribyt che, come detto, rende accessibili tutti i contenuti e le versioni. Inoltre, chi acquista quotidianamente la versione cartacea otterrà un codice per accedere al web senza limiti per quel giorno.

Ma la domanda resta sempre quella: perchè si dovrebbe pagare, considerando anche che «El Pais» resta invece aperto. Secondo quanto dichiarato in un hangout con streaming dal vivo Pedro J. Ramírez, Direttore del giornale, si sostiene che vengono offerte informazioni di valore e che dunque si debba pagare affermando che:

Me molesta que haya quien piense que la información no tiene valor. Nuestro objetivo es devolver el valor al trabajo que hacen los profesionales, poniendo un precio para quien quiera pagar [Mi dà fastidio che alcune persone pensino che l’informazione non ha valore. Il nostro obiettivo è quello di riportare il valore al lavoro fatto da professionisti, mettendo un prezzo per chi vuole pagare].

Il ritornello di sempre insomma. Una motivazione che per quanto legittima resta vuota, priva di significato, e di speranza effettiva di ottenere dei ricavi, nello scenario attuale.

Buona fortuna!

newspaper_paywall

Per approfondire. L’editoriale di Pedro J. Ramírez “El Mundo cambia pelle, ci guadagnano tutti” e un altro articolo, pubblicato sempre sul sito web del giornale, “Non ci sarà un solo lettore che non avrà benefici da El Mundo”.

Bonus track l’infografica realizzata da Blogmeter Spagna sulle “Facebook Top Brands” della penisola iberica per settembre 2013 dalla quale emerge come «El Mundo» abbia un tasso di engagement inferiore a «El Pais» ed a molti altri quotidiani spagnoli.

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Le Notizie su Facebook Sono Unbranded

La marca è una dimensione fondamentale , un elemento strategico  nella gestione aziendale di qualunque impresa. La marca, i suoi attributi e la sua personalità sono elementi che indirizzano le persone nella scelta di un prodotto, di qualunque prodotto. La sua rilevanza si fonda essenzialmente su due elementi:

  • Il passaggio dalla mera vendita del prodotto alla messa in discussione [“markets are conversations”] del prodotto
  • La fondamentale rilevanza degli aspetti di immagine, immateriali, rispetto a quelli materiali, in particolare nell’area B2C

Kotler Value Based Matrix

 

Sono aspetti  colpevolmente trascurati dall’industria dell’informazione e non a caso una delle principali problematiche nella spasmodica ricerca di ricavi sta proprio nel fatto che le notizie siano diventate di per se stesse una commodity, sono cioè fungibili poichè indifferenziate indipendentemente dal “produttore” d’informazione, dalla testata.

Già a giugno di quest’anno lo studio “Digital News Report” del Reuters Institute for the Study of Journalism faceva emergere come per una larga fetta della popolazione, italiani in particolare, le notizie fossero unbranded, senza marca distintiva.

Arriva ora la ricerca condotta da GFK per conto di The Pew Research Center’s Journalism Project “The Role of News on Facebook” a confermarlo.

Secondo i risultati emergenti solamente  per una minima parte degli statunitensi che fruiscono di informazione, di notizie, attraverso Facebook il marchio della testata è elemento di valore, motivazione che li porta a cliccare per leggere, per approfondire.

Senza brand non c’è valore aggiunto, non c’è speranza di sopravvivenza. Non è necessario rifarsi al marketing 3.o di Kotler per saperlo, sta scritto alla prima pagina del “bigino” di questa disciplina. Fate vobis.

9-major-reasons-why-people-click-on-links-to-news-stories

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Internet è un Ecosistema NON un Medium

In tutte le ricerche sui consumi mediatici sia a livello internazionale che più direttamente in riferimento al nostro Paese nella comparazione sulla fruizione dei diversi media viene inserito Internet.

É il caso anche dell’ 11° Rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione presentato ieri. La prima delle slides proiettate dal Direttore Generale del CENSIS infatti pone a confronto l’utilizzo della Rete in Italia con il consumo di televisione, radio, giornali…etc.

Censis Evoluzione consumo di Media 2013

Sono profondamente convinto si tratti di un errore grave, non trascurabile, di una consuetudine consolidata che debba essere interrotta.

Internet è un ambiente non un canale, Internet è un ecosistema NON un medium, come ho provato a spiegare, con parole semplici, in una mia intervista ad inizio anno al termine della lezione tenuta al master in giornalismo scientifico digitale della SISSA.

La conferma, se necessario, viene dalla 12esima slide della precitata presentazione che mostra il passaggio ai “personal media” visualizzando al suo interno i diversi mezzi, i distinti canali d’informazione sul Web, con i siti web dei quotidiani online che perdono terreno e YouTube, Facebook e motori di ricerca che lo guadagnano come fonte primaria d’informazione.

Come dicevo pochi giorni fa, i personal media suggeriscono che dovremmo riconsiderare ogni nozione circa la tradizionale idea di pianificazione, acquisto, e di misurazione dei media. Le basi di portata e la frequenza devono essere completamente rivalutate. La misurazione dei media deve anche essere revisionata ed i concetti di valutazione delle prestazioni riconsiderati.

Iniziare a farlo dalla comprensione di cosa sia, e cosa non sia, la Rete è assolutamente un passaggio indispensabile per procedere nella giusta direzione, si tratti di editori e di altra tipologia di imprese.

Censis Prime 10 Fonti d'Informazione

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In God We Trust; All Others Bring Data

Qualche giorno fa il direttore del Pew Research Center ha ripreso alcuni dati di un più ampio rapporto pubblicato dall’autorevole istituto di ricerca da lui diretto. Dai dati [ri]pubblicati emerge un grido di allarme relativamente al fatto che i giovani avrebbero un minor interesse le le notizie, per i siti d’informazione, e ovviamente per la versione cartacea dei quotidiani, ai quali dedicherebbero un tempo sempre minore.

A commento dei dati, e delle evidenze emergenti, Jeff Jarvis si domanda se in realtà questo non sia invece evidenza di un consumo di informazione più efficiente e che dunque richiede meno tempo.

Personalmente, dando per scontata l’autorevolezza di Jarvis che non ha neppure bisogno di essere confermata, non credo che le motivazioni di un calo del tempo dedicato ai siti web d’informazione sia da ricercarsi in una maggior efficienza.

Da un lato sono numerose le ricerche che [di]mostrano come una quota sempre maggiore dei giovani attinga da social media e social network per avere notizie. Una dinamica che non è solo degli statunitensi ma anche degli europei e degli italiani, come provano  i risultati della terza edizione dell’indagine NEWS-ITALIA.

Dall’altro lato, a prescindere da “boxini morbosi”, ed alle relative polemiche al riguardo mai spente, in generale i siti dei quotidiani non sono fatti per i giovani ma pensati, come i giornali cartacei, per un pubblico più adulto. Non a caso i risultati della ricerca “Giovani e Informazione”, condotta dell’Osservatorio Permanente Giovani – Editori in collaborazione con GfK Eurisko. evidenziano una sonora bocciatura da parte dei nativi digitali delle edizioni online dei quotidiani.

Se dunque le opinioni sono per definizione rispettabili, in questo caso quelle espresse dal professore e direttore del  Tow-Knight Center for Entrepreneurial Journalism della City University of New York’s non paiono supportate da dati. Le cause della disattenzione sembrano davvero essere altre.

in god we trust

Inoltre, più in generale, come sottolineavo ad inizio mese, i personal media suggeriscono che dovremmo riconsiderare ogni nozione circa la tradizionale idea di pianificazione e di misurazione dei media. Le basi di portata e la frequenza devono essere completamente rivalutate. La misurazione dei media deve anche essere revisionata ed i concetti di valutazione delle prestazioni riconsiderati. Si tratta del passaggio, dell’evoluzione dall’economia dell’attenzione a quella dell’intenzione. Elemento che conferma l’inversione del processo tradizionale  dello spingere [“to push”] i contenuti verso i lettori a quello di attirare [“to pull”] i lettori verso di sè, come giustamente commentava Andrea Iannuzzi in riferimento proprio al precitato articolo di Jarvis.

Concetti che ormai dovrebbero essere sufficientemente noti e che normalmente si racchiudono nella nozione di “inbound marketing” che propone un’inversione di pensiero abbandonando modalità, mezzi e toni fortemente promozionali per lasciare spazio alla condivisione di contenuti e la costruzione di relazioni con la propria community: non più un target da aggredire ma pubblici diversi, persone da conquistare coinvolgendole; evoluzione del marketing relazionale e dell’idea di Seth Godin del “permission marketing”, che nel suo insieme l’industria dell’informazione non pare ancora aver colto, compreso ed adottato.

Torneremo a parlarne molto presto, promesso! Per il momento mi premeva chiarire su quali fatti, dati si basi la disaffezione dei giovani verso le fonti tradizionali d’informazione e ribadire, ricordare quali siano i “fundamentals”, i principi ispiratori sui quali fondare strategia ed azioni.

Buon lavoro.

understand_the_principles

Update 08:30: Sul tema della disattenzione/disaffezione dei giovani verso le fonti tradizionali d’informazione, da leggere “BuzzFeed president: ‘We feel strongly that traditional media have given up on young people'” pubblicato ieri sul «The Guardian» che ho visto solo dopo la pubblicazione di questo articolo.

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