Archivi del mese: luglio 2013

Modello di Business?

Il mio articolo di un paio di giorni fa su i conti delle testate pure digital italiane ha aperto un interessante dibattito sullo spinoso tema della sostenibilità dell’informazione, sulla ricerca di modelli di ricavo per il digitale ed in particolare per le pubblicazioni all digital.

Oltre agli interessanti commenti all’articolo, Massimo Russo, neo Direttore di «Wired» dopo una lunga esperienza lavoro in Kataweb, dal suo blog Cablogrammi, arricchisce il confronto sul tema con “Giornalismo, la difficile ricerca di modelli economici digitali” in cui fornisce l’aggiornamento a livello internazionale che [di]mostra che perlopiù anche al di là dei confini nazionali, nonostante una numerosità di pubblico potenziale decisamente superiore in realtà i casi nei quali vi sono ritorni economici degni di questo nome si contano sulla punta delle dita.

All’intervento di Russo si aggiunge quello di Marco Giovannelli, Direttore di «Varese News», uno dei pochi casi “virtuosi” nello sconfortante panorama generale, che fa il punto sulla questione osservandola dalla propria prospettiva, quella “glocal” delle testate, quale appunta quella da lui diretta, che fa di una specifica parte del territorio nazionale il proprio riferimento, affermando appunto che “il locale è un microcosmo interessante per comprendere meglio diversi fenomeni generali”, e che “il giornale deve essere strategico per il territorio. È nelle comunità di riferimento la sua forza, ben oltre i social o gli strumenti”.

Entrambi concordano che il binomio vendite-pubblicità non è, e non sarà mai più, un modello di business in grado di sostenere l’economia delle testate, siano esse all digital o meno, e che fondamentalmente si tratti di passare dal piedistallo allo sgabello per chi ha la capacità di guardare oltre i soliti, obsoleti, modelli di business.

Sempre Russo integra i sei punti chiave forniti nel precitato articolo partendo dalla segnalazione di un articolo di Jeff Jarvis secondo il quale la chiave di volta sta nella relazione con l’utente, con le persone, e con l’abile utilizzo dei dati forniti dalle stesse per profilare le scelte editoriali e costruire l’offerta pubblicitaria.

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L’idea dei dati, o del big data come si usa dire attualmente, senza nulla togliere nè a Russo nè tanto meno a Jarvis, non è nuova.

Alan Rusbridger, editor-in-chief del «The Guardian», durante l’open weekend promosso dal quotidiano anglosassosone a marzo dell’anno scorso, chiedeva cosa le persone fossero disposte a dare ai giornali in cambio delle notizie, elencando come scelte possibili: soldi, tempo e informazioni.

Dopo il lancio ad aprile di Google Customer Surveys, soluzione disponibile anche in Italia, soluzione alternativa concettualmente al paywall che propone un breve questionario al quale il lettore deve rispondere per poter avere accesso all’articolo completo, come segnalavo all’epoca dell’esordio, arrivano ora altre proposte e soluzioni in tal senso.

E’ infatti sempre sulla raccolta di dati, di informazioni, che si concentra la proposta di Enliken, disponibile a breve, che pensa di utilizzare le informazioni richieste agli utenti per meglio profilare la comunicazione pubblicitaria online utilizzando i loro dati come forma di micro pagamento per avere accesso a contenuti informativi premium e/o per avere accesso a promozioni particolari.

Ed è, ancora, recente l’annuncio del «The Washington Post» che ufficializza come il il gruppo di lavoro, lo staff interno al giornale, dedicato ai sondaggi che ora diventa un servizio che sarà realizzato non solo ad uso e consumo del giornale ma verrà offerto ai propri clienti, alle aziende, andando a costituire un’unità di business indipendente, una nuova fonte di ricavo per la testata statunitense.

A febbraio di quest’anno The Pew Research Center’s Project for Excellence in Journalism ha pubblicato lo studio “Newspapers Turning Ideas Into Dollars: Four Revenue Success Stories”. Musica per le orecchie di questi tempi.

Seppure la desk research si focalizzi sull’evoluzione, di successo, di quattro testate tradizionali, nate dal cartaceo, nel difficile passaggio al digitale, le idee che emergono sono certamente d’interesse anche per i pure players digitali. Si tratta infatti di quattro casistiche molto diverse tra loro dalle quali, al di là delle specificità, emerge, si conferma, come non esista LA soluzione ma sia possibile trovare UNA soluzione specifica per ciascuna realtà.

Insomma non esiste un modello di business ma esistono, si possono ricercare e plasmare, dei modelli che nel loro insieme garantiscano ricavi apprezzabili.

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Bonus track: Sul tema vale la lettura l’articolo pubblicato da ANSO, Associazione Nazionale Stampa Online.

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Quando la Notizia è un Videogioco

I newsgame e gli editorial game sono videogiochi interattivi che associano la trasmissione di notizie e informazioni a un format che consente di coinvolgere gli utenti in un modo più attivo rispetto alle tecniche classiche finora utilizzate. Il gioco soddisfa infatti motivazioni sociali, coinvolge, crea un senso di comunità, spinge alla condivisione dei contenuti e può aumentare, ad esempio, il tempo trascorso sul sito di un quotidiano online, al pari di altri formati multimediali di diffusione delle notizie.

Ne parlo nella mia rubrica per l’European Journalism Observatory esaminando casistiche concrete ed analizzando lo svluppo nel corso del tempo ed il perchè della scarsa diffusione di questo format nonostante i molteplici vantaggi offerti.

Buona lettura.

Newsgames Chicago Tribune

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I Conti dei Quotidiani All Digital Italiani

Già il rapporto “Survival is Sucess”, realizzato a metà 2012 da Nicola Bruno e Rasmus Kleis Nielsen per il Reuters Institute for the Study of Journalism, aveva evidenziato come per le start up all digital dell’informazione del nostro paese la sopravvivenza fosse da considerarsi un successo.

Analisi delle difficoltà ad ottenere redditività che era stata poi confermata dallo studio “Chasing Sustainability on the Net : International research on 69 journalistic pure players and their business models”, che mostrava come le testate all digital italiane fossero ancora ben distanti dal generare ricavi che coprano i costi. Uniche eccezioni virtuose, per motivi diversi, «Varese News» e «YouReporter».

Una situazione critica che in questi giorni viene denunciata dal Direttore di «Q Code Mag», iniziativa editoriale sorta dalle ceneri di «E – Il Mensile» di PeaceReporter, che parla delle difficoltà del fare un giornalismo di qualità scrivendo che “il mercato è dopato: quella massa di click che raccogli attraverso un giornale e che riguardano temi non giornalistici – altro che caldi! – drogano costantemente il mercato e spingono le asticelle e le classifiche dei più cliccati in una dimensione di evidente e globale menzogna”.

Criticità che trasparivano con chiarezza dalla ricerca effettuata da Human Highway che, analizzando la fisionomia e l’immagine delle testate online nel nostro Paese, mostrava con chiarezza che i newsbrand restano quelli che nascono dalla carta, mentre gli all digital, ahimè, non sfondano dopo anni da loro lancio ormai e che sono ulteriormente confermate dall’analisi svolta da Claudio Plazzotta su «Italia Oggi» di venerdì 26 scorso.

Plazzotta ha raccolto i bilanci 2012 di «Linkiesta», News 3.0 [«Lettera43»], «Il Post», Società Editrice Multimediale [«Blitz Quotidiano»] e «Dagospia». Secondo quanto riportato tra le testate prese in considerazione l’unica a reggersi sulle proprie gambe, a produrre un utile, è quella realizzata da Roberto D’Agostino, che giustamente qualcuno ricorda come non sia solamente l’unico a macinare utili ma è anche l’unico a non produrre contenuti o, almeno, a prosperare in gran parte sul valore creato da altri. mentre tutte le altre presentano bilanci in perdita.

«Linkiesta», gravata da costi del lavoro insostenibili, continua a perdere 1 milione di euro all’anno [ed al terzo anno siamo dunque in rosso di 3 milioni di euro complessivamente], «Lettera43», pur a fronte di una crescita dei ricavi del 30% rispetto all’anno precedente aumenta le perdite accumulando anche in questo caso 1 milione di euro di rosso in bilancio. «Il Post» di Luca Sofri, ma sempre più di Banzai, quasi raddoppia i ricavi ma aumenta le perdite del 33% raggiungendo un buco di 480mila euro e «Blitz Quotidiano» resta stabile nei ricavi ma all’aumentare dei costi di produzione perde 142mila euro nel 2012. Non sono ancora disponibili i dati di «Affaritaliani» di Angelo Maria Perrino ma si tenga conto che l’utile del 2011 era stato di soli 2.500 euro.

Bilanci 2012 Testate All Digital

Se insomma la sopravvivenza è un successo e la stabilità un miraggio il rischio che le testate pure digital italiane seguano il percorso della free press cartacea è concreto.

Difficile dire cosa sia necessario fare, se non analizzando specificatamente ciascuna testata con tempi e costi che rientrano nella consulenza e non più nella divulgazione di questa TAZ, ma incrociando ricavi ed accessi, utenti unici, è chiaro ormai che la strada perseguita sin ora non è quella che paga, da nessun punto di vista.

Se escludiamo «Linkiesta», che però probabilmente è andata a cercare di ritagliarsi una nicchia troppo ristretta rispetto ai costi che sostiene, nessuna delle altre testate ha tratti distintivi in grado di creare valore aggiunto per lettori ed inserzionisti. Non è solo questione di qualità dei contenuti o di indipendenza delle testate, che infatti i lettori riconoscono sia a  «Linkiesta» che a «Il Post», ma di trattamento dell’informazione, di relazione con i lettori e di tipologia dell’offerta.

Qualcuno cortesemente mi spieghi, ad esempio, sempre con il massimo rispetto per tutti coloro che svolgono un lavoro onesto, perchè mai dovrei andare a leggere le notizie su «Blitz Quotidiano» invece che su «la Repubblica» o «Il Corriere» online.

Se avete la risposta avete la soluzione al problema, in caso contrario il problema è serio.

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Native Advertising

Il native advertising, format pubblicitario contestuale che ibrida contenuti e annunci pubblicitari all’interno del contesto editoriale dove essi vengono posizionati, complice la conclamata inefficacia dei banner, sta diventando una modalità di comunicazione d’impresa sempre più apprezzata dalle aziende, dagli investitori pubblicitari. Non a caso lo IAB ha costituito una task force, un nutrito gruppo di lavoro, sul tema.

Vista la tendenza gli editori, almeno negli USA, si adeguano. Secondo una ricerca effettuata dall’Online Publishers Association, associazione che riunisce tutti i principali editori statunitensi, dal NYTimes al Finanacial Times, passando per Hearst Corporation e AOL, per citarne alcuni, entro la fine del 2013  il 90% dei propri associati offrirà questo tipo di format ed il 73% già lo propone.

Offerta Native Adv

Le motivazioni dell’esplosione dell’offerta di questa tipologia, che in fondo è banalmente una rivisitazione dei vecchi publi-redazionali, è ben riassunta dal grafico sottostante che mostra come per i marketers, per chi si occupa professionalmente di marketing, questo format, in realtà i diversi format poichè diverse possono essere le tipologie, offre due vantaggi: maggior engagement, maggior coinvolgimento, ed utilizza la brand equity [il valore del marchio] degli editori per innalzare di riflesso il valore del marchio delle imprese inserzioniste.

Si tratta di un tipo di offerta che anche gli editori italiani non possono più trascurare pena, anche, la possibilità che le aziende decidano di fare da sole.

Ragioni Native Adv

Sul tema è opportuna la lettura di: “The Ethics of Using Paid Content in Journalism”

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Il Widget “Shoppable” del Mail Online

Il Mail Online, esempio di gossip massificato planetario che l’ha reso il sito web di una testata giornalistica più visitato al mondo e che, secondo il rapporto economico-finanziario di fine maggio di quest’anno, vede i propri introiti pubblicitari aumentare del 61%, ha trovato il modo di generare nuovi ricavi dall’online.

Mail Online Profits

Grazie ad un widget infatti da circa un mese le foto contengono un pop-up che dice al lettore da dove provengono, di che marca sono vestiti ed accessori dei personaggi celebri paparazzati e gli permette di acquistarli al miglior prezzo disponibile.

Secondo quanto riportato l’iniziativa sta riscuotendo un enorme successo con il 90% dei marchi che hanno aderito ed un numero di click trough estremamente rilevante.

Il gossip si fa “shoppable” e vince. C’è da rifletterci.

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Edizioni Native Digitali

Dopo la chiusura pochi mesi fa del «The Daily», testata per tablet che nelle intenzioni avrebbe dovuto segnare l’inizio della rivoluzione editoriale, arriva ora la notizia di un altro fallimento. Si tratta di «Tech.» rivista settimanale solo per tablet nata come spin off di «TechRadar».

Secondo quanto riporta «The MediaBriefing» dopo solo sette mesi dal lancio Future, gruppo editoriale internazionale con una forte vocazione al digitale, ne annuncia la chiusura.

La lezione da trarre sembrerebbe quella di una debolezza di brand per le edizioni native digitali. Mentre infatti le versioni per tablet di riviste che nascono dalla carta beneficiano di una notorietà di marca che deriva da anni di pubblicazioni tradizionali e conoscenza del magazine, e/o del quotidiano ovviamente, così non è per le pubblicazioni digitali.

Infatti la stessa sorte è toccata anche a «Huffington», il magazine per iPad del «The Huffington Post», presentato non solo come raccolta del meglio del quotidiano all digital internazionale ma come rivista a sè stante con contenuti esclusivi non disponibili online e posto in vendita a 1,99 $ al mese e/o 19,99 $ all’anno, diventato ben presto gratuito basando le attese, le speranze di reddività solo sulla pubblicità.

Se certamente le edizioni native digitali hanno maggiori debolezze  sembrerebbe che esista più in generale una problematica di valorizzazione delle applicazioni sia in generale che più specificatamente a livello editoriale nel suo complesso.

Che le speranze di ottenere redditività ragionevole, o addirittura di replicare il modello di business dei giornali tradizionali grazie ad applicazioni dedicate per tablet, fossero mal riposte è una tesi che il sottoscritto sostiene da tempo.

I dati diffusi da Flurry in questi giorni mostrano una crescente tendenza a non pagare le applicazioni con la quota di app gratuite che quest’anno raggiunge il 90% del totale come mostra il grafico sottoriportato.

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Le speranze di recupero di ricavi attraverso le app sono decisamente ridotte, o nulle, e persino al «Financial Times», che da tempo ha annunciato il sorpasso delle copie digitali rispetto alla carta,  il successo è dovuto essenzialmente a due fattori: forte specializzazione e valore dei contenuti combinata con una grandissima attenzione, in termini di monitoraggio, delle informazioni ottenute grazie al tracking dell’utenza online. Una ricetta di successo che non si basa esclusivamente sul digitale ma che, come afferma John Ridding, CEO del quotidiano finanziario-economico, si fonda su un approccio di distribuzione dei contenuti multipiattaforma, carta inclusa.

E’, ancora, a mio avviso, l’idea di riprodurre e riproporre il modello del giornale cartaceo nel digitale che non funziona. Non è sensato obbligare il lettore ad acquistare un quotidiano o una rivista nel suo insieme, nella sua totalità, come avviene per la versione tradizionale, molto meglio puntare sugli e-single, sulla vendita di contenuti di specifico interesse e dunque valore.

La distribuzione diffusa e la convergenza, la capacità di dare significato ad ogni format, ad ogni device, ancora una volta incluso il supporto cartaceo, sono il binario da seguire senza cullarsi esclusivamente nella “tabletmania”.

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Bonus track: Sul tema da leggere “How news organizations are experimenting with ‘digestible digital weeklies’ on mobile devices” ed anche “Why we won’t have tablet-native journalism”.

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La Victoria del Brand Journalism

Procter & Gamble ha lanciato circa un mese fa, sia in edizione cartacea che online, un magazine dedicato alle donne over 50: «Victoria».

Victoria

Secondo quanto riportato, spiega Barbara Del Neri, Direttore Marketing, Brand Operations di P&G e responsabile dell’intera iniziativa, “è un progetto pilota di P&G nel mondo. Nasce in Italia, sia per motivi anagrafici, dato che la longevità delle italiane è superata in Europa solo da Francia e Spagna, sia perché le donne dai 50 anni in su sono il 20% della popolazione femminile”.

La decisione di lanciare questa iniziativa parte infatti dai risultati dell’indagine di AstraRicerche dedicata a questa fascia della popolazione dalla quale emerge appunto come le donne tra i 50 ed i 64 anni rappresentino attualmente un quinto dell’universo femminile italiano; incidenza che sembrerebbe destinata a raddoppiare da qui al 2030 secondo le proiezioni basate sui dati ISTAT.

La presenza dei marchi della nota multinazionale sul sito web della rivista è discreta, non invasiva, o quanto meno certamente meno invasiva di quella che si può vedere su testate realizzate da editori tradizionali.

Sei le sezioni del magazine dalla cucina al “bellessere” passando per viaggi e tech. Gli articoli proposti sono sia con contenuti “sponsorizzati”, con in evidenza uno dei brand aziendali, che divulgativi, prettamente redazionali.

Come scrivevo qualche giorno fa, nel nuovo, sempre in mutamento, ecosistema dell’informazione si rompono i vecchi equilibri: i giornali hanno meno bisogno delle agenzie stampa di un tempo grazie a social media e citizen journalism; mentre dall’altro lato, le agenzie immaginano in un futuro prossimo di entrare in concorrenza con i loro clienti. Al tempo stesso le imprese, spesso clienti di entrambi, abbracciano sempre più l’idea di diventare loro stessi editori, produttori di contenuti dando vita a quello che viene raccolto nella definizione di brand journalism, come conferma, se necessario, l’iniziativa di P&G.

Se ogni impresa è un media i media devono [finalmente?] diventare impresa, al di là delle peculiarità legate al “prodotto” informazione, diversificando le fonti di ricavo abbandonando il binomio vendite-pubblicità che appare chiaramente sempre meno sostenibile.

BrandJournalismTheRiseOfNonFiction

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Co-creazione e Gamification

La co-creazione è, o dovrebbe essere, l’essenza del “web 2.0”, un processo collaborativo per creare qualcosa di valore reciproco tra un’impresa ed un consumatore, una persona. Processo che inizia, faticosamente, a diffondersi anche come una nuova forma di giornalismo “open”, aperto, riunendo i giornalisti ed i lettori, le persone, per collaborare alla produzione di una storia, di un articolo.

Bonnier Group, editore internazionale di origini finlandesi, sta sperimentando la co-creazione di «Olivia», magazine femminile finnico.

Nel 2011, «Olivia» ha lanciato la sua piattaforma di co-creazione “La Mia Olivia” [Oma Olivia] sulla quale lettori e giornalisti collaborano per produrre articoli in un processo sequenziato e  sistematico, ma aperto. I lettori e giornalisti producono storie, articoli insieme ed il prodotto finale viene pubblicato nella versione cartacea della rivista o sul sito web.

Il processo di co-creazione del racconto è strutturato come una  sfida ed utilizza come meccanismo incentivante sia i criteri della gamification che premi offerti dagli sponsor; nella guida sono spiegati i meccanismi ed i criteri di assegnazione dei punteggi e dei relativi badge. Si articola in fasi successive del processo giornalistico standard di trovare un argomento, la sua angolazione, prospettiva, ed eventualmente i soggetti da intervistare sul tema, immagini e quant’altro necessario.  Durante questa fase editoriale iniziale i giornalisti della rivista sono in costante dialogo con i lettori attraverso una chat.

In funzione degli input ricevuti dal pubblico i giornalisti poi scrivono le storie. Nel frattempo, il pubblico può seguire la produzione del racconto attraverso una barra di avanzamento sulla piattaforma di collaborazione. Dal lancio ad oggi “La Mia Olivia”  è rimasto uno strumento co-creazione  costantemente utilizzato alla rivista. Quando non vi sono “sfide” attive la piattaforma assolve alla funzione di forum di discussione.

Creare comunità di co-creazione e ricercare nuovi strumenti per interagire con i lettori, coinvolgendoli ulteriormente grazie a meccanismi di gioco, rappresenta una parte essenziale di esplorazione del futuro . Personalmente n0n ho dubbi al riguardo, davvero.

Oma Olivia

Sul tema, vale assolutamente la lettura lo studio pubblicato ad inizio anno: “Balancing Between Open and Closed. Co-creation in magazine journalism”

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Te la do io la notizia

Il giornalismo partecipativo, o citizen journalism che dir si voglia, è un’area di grandissime potenzialità sia in termini di produzione di contenuti che di modalità di relazione e coinvolgimento dei lettori da parte delle grandi testate. Un’informazione di qualità e partecipata, open, che convinca e coinvolga il lettore, le persone, è elemento discriminante che può fare la differenza sia in termini di rapporto costi/ricavi che a livello di value proposition, la proposta di valore che offriamo alle persone.

Il fotovideo citizen journalism è un fenomeno di estrema rilevanza come testimonia, per quanto riguarda l’Italia, l’enorme successo di YouReporter con i video girati dalle persone che sono stati trasmessi da tutte le TV italiane e da molte altre emittenti in tutto il mondo.

E’ proprio di YouReporter, della sua storia ed evoluzione, che parla il libro di recentissima pubblicazione “Te la do io la notizia” di Angelo Cimarosti, co-fondatore, insieme a Luca Baucccio e Stefano De Nicolo, della più importante piattaforma di giornalismo partecipativo del nostro Paese.

120 pagine suddivise in 13 capitoli che attraverso la storia di YouReporter, dalla sua nascita nell’aprile del 2008 ai giorni nostri, analizzano questo fenomeno, con 65mila iscritti e 400mila contributi in questi primi cinque anni, di partecipazione e informazione con l’occhio appassionato di chi l’ha creato ma anche critico ed attento del giornalista professionista consapevole dei vantaggi ma anche dei rischi che questo comporta.

Una finestra tutta italiana per capire chi sono i citizen journalist e cosa li spinge a raccontare le proprie storie. Lettura obbligata per approfondire quello che con la diffusione di massa del web è certamente uno dei fenomeni di maggior impatto nell’evoluzione dell’ecosistema dell’informazione.

Libro Cimarosti

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Incredibile

Adobe ha commissionato a Edelman Berland una ricerca sulla comunicazione d’impresa. Lo studio: “The State of Online Advertising” è stato condotto tra ottobre 2012 ed aprile 2013 in sette diverse nazioni ed ha coinvolto 8750 persone e 1750 professionisti dell’area marketing.

A metà giugno sono stati rilasciati sia i risultati generali che il dettaglio per ciascuna delle nazioni oggetto dell’indagine.

Si conferma per l’ennesima volta che passaparola tra conoscenti ed amici e la comunicazione tra pari sono le più credibili e dunque le più efficaci. Seguono i media tradizionali: televisione e quotidiani [di carta].

Le pagine aziendali sui diversi social media sono la fonte meno credibile, paradossalmente per gli stessi professionisti del marketing.

Adobe

Si tratta ancora una volta di un chiaro indicatore di come nella maggior parte dei casi, con le dovute eccezioni delle generalizzazioni che però restano tali, anche i social media vengano utilizzati prevalentemente dalle imprese con finalità smaccatamente promozionali, come testimonia l’ampio utilizzo di offerte ed appunto promozioni, e non per stabilire una relazione e dunque una conversazione con le persone sulla base dei loro interessi.

Sono trascorsi decenni dalla famosa locuzione “il medium è il messaggio” attraverso la quale McLuhan cercava di spiegare che i media non sono neutrali, la loro stessa struttura produce infatti un’influenza sui destinatari del messaggio che va al di là del contenuto specifico che veicolano, e più di un lustro dall’avvento del “Web 2.0”.

La fiducia è importante e viene dal coinvolgimento su affinità su interessi comuni non dall’interruzione invasiva, continuare a non tenerlo in considerazione, in pratica, nella comunicazione d’impresa è un nonsense.

Bonus track: Sul tema vale assolutamente la lettura l’intervista di Apogeo all’amico Daniele Chieffi “Aziende online: come si cambia per non morire”

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