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Gli [In]Successi dell’Huffington Post

Pare che anche le “macchine da guerra” talvolta si inceppino. E’ questo il caso dell’Huffington Post nell’ultimo mese che qualcuno ha prontamente ribattezzato ironicamente Huffington Flop. Procediamo con ordine.

Nella mia colonna settimanale per l’Osservatorio europeo di giornalismo, partendo da un’analisi [*] dell’amplificazione sociale prodotta dagli utenti, dalle persone, attraverso i social network degli articoli pubblicati tra il 25 settembre [giorno del lancio] ed il 25 ottobre dal quotidiano online diretto da Lucia Annunziata, incrociando altri dati, provo ad analizzare l’andamento di L’Huffington Post Italia un mese dopo. Emerge, lo anticipo, uno sboom di engagement e circulation che, nonostante un mese sia un periodo ridotto per valutare il successo, o meno, di un’iniziativa, certamente non pare in linea con gli ambiziosi obiettivi dichiarati al lancio.

Se per caso non siete tra coloro che hanno già letto ieri l’articolo [#] lo trovate QUI.

Sempre un mese fa Huffington Post US ha lanciato una piattaforma di user generated reporting. Firsthand, questo il nome dato all’iniziativa di giornalismo partecipativo, dovrebbe favorire l’engagement delle diverse comunità a livello locale consentendo loro di condividere idee ed immagini sulla prpria realtà.

Secondo quanto dichiarato da Peter Goodman, business editor dell’ Huffington Post, Firsthand dovrebbe permettere di conoscere notizie, informazioni sulle diverse realtà locali che altrimenti non emergerebbero, utilizzando le comunità per integrare il lavoro giornalistico della testata. Come nella “filosofia” aziendale, pur non trattandosi di opinioni ma di notizie, ugualmente non è prevista l’ipotesi di compensare, almeno in parte, il lavoro svolto con sistemi di revenue sharing.

L’abuso della parola community vorrebbe alleggerire la subordinazione delle audience e la primazia delle formule redazionali adottate, copia conforme dei modelli gerarchici delle aziende patrocinatrici, un trucco troppo evidente per convincere sugli obiettivi dichiarati, ed infatti ad oggi sono solamente 24 le storie pubblicate e il livello di partecipazione, almeno vedendo la scarsità di commenti alle, poche, storie caricate sulla piattaforma, è davvero ai minimi livelli.

Infine, sempre Huffington Post US ha lanciato la scorsa settimana l’applicazione di HuffPost Live, streaming video network attivo da agosto di quest’anno. Subito dopo due ex dell’Huffington Post, Ken Lerer and Eric Hippeau, hanno lanciato NowThis News, applicazione concorrente che però pare avere un numero di opzioni e caratteristiche decisamente più interessanti che, a parità di condizione, dovrebbero consentire un maggior successo rispetto a quella realizzata dalla corazzata capitanata da Arianna Huffington.

Se, come recita il detto, non c’è il due senza il tre sarebbe davvero un periodo di insuccessi per la media company staunitense.

[*] I dati analitici delle condivisioni giornaliere di HuffPost Italia sono disponibili su richiesta.

[#] L’articolo è stato “ripreso” da Affari Italiani – QUI – in maniera che mi pare poco corretta poichè:

a) Non è stata chiesta autorizzazione nè al sottoscritto nè a EJO

b) Sono stati rimossi i link – che sono parte dell’articolo e ne danno senso

c) E’ stato cambiato il titolo  [update: nel silenzio è stato messo il titolo originale, ora]

d) Sono state rimosse le immagini – che, come al punto b, non sono decorative ma aiutano il lettore a comprendere

e) L’articolo è stato ripreso integralmente.

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Nasce El Huffington Post

Come doveroso per una testata all digital è stato annunciato attraverso Twitter che «El Huffington Post» è online dalle 00.42 di oggi.

La versione spagnola dell’ «Huffington Post», al 50% con Prisa, società che controlla canali televisivi, radio e quotidiani in 22 Paesi nel mondo, con un paio di mesi di ritardo, vede dunque la luce. Ovviamente ampia copertura su «El Pais», quotidiano del gruppo.

Stesso “family feeling”, stessa impostazione grafica delle altre versioni con lo splash fotografico della notizia principale a tutta pagina e la disposizione su tre colonne idealmente suddivise in informazioni/notizie, curiosità/gossip e blog, sono le caratteristiche del visual del sito anche per la versione in castellano dell’HuffPost.

Strutttura editoriale snella con 8 giornalisti, oltre alla Direttrice Montserrat Domínguez, e 130 blog/blogger [anche se al momento sono solo 4] per i contenuti delle attuali 5 sezioni.

Leggendo gli editoriali di apertura realizzati da Monserrat Dominguez e da Arianna Huffington non è difficile capire come ad una sia affidata la gestione operativa ed all’altra quella strategica.

Un lancio preceduto da molte polemiche proprio a causa dei blog e della scelta di non remunerare chi li scrive onorato, secondo quanto dichiarava a chiare lettere la Direttrice già un mese fa, da visibilità e prestigio  offerte dalla piattaforma informativa. Continuità ahimè dunque anche da questo profilo del modello che mette alla fame per la fama chi scrive.

Oltre alle considerazioni sull’eticità di intraprendere un’attività a fini di lucro basandosi ampiamente sul lavoro non retribuito, vi sono anche altre ombre all’orizzonte per la versione spagnola e per le altre previste.

Se infatti i numeri dell’«Huffington Post» statunitense sono da capogiro in Europa, sin ora le cose sono andate decisamente meno bene.

La versione per la Gran Bretagna, dopo un inizio deludente che ha portato ad una strategia di ulteriore espansione attraverso la partnership con editori locali, non fa numeri straordinari e il 31% del traffico, delle visite al sito, arriva dagli USA.

Anche la versione francese, realizzata in partecipazione con Le Monde e LNEI [Les Nouvelles Editions Indépendantes], anche se è presto per dirlo a soli 4 mesi dal lancio, dopo una buona partenza ha un trend negativo  e non mancano le polemiche sui vantaggi ottenuti grazie al fatto di essere sorto sulle ceneri di «LePost» e sulla bassa capacità di attrazione che paiono avere gli articoli prodotti dai blogger d’oltralpe che attraggono solamente l’8% del totale delle visite mensili.

Pare insomma che il modello d’importazione funzioni meno bene nel vecchio continente.

In Italia, come noto, in accordo con il Gruppo Espresso-Repubblica, dovrebbe arrivare a settembre la versione per il nostro Paese diretta, anche in questo caso da una donna, da Lucia Annunziata.

Personalmente non posso che ribadire che non abbiamo bisogno di altri modelli di sfruttamento né di soluzioni “pret a porter”, ma di un progetto che possa portare a un cambiamento culturale e organizzativo, che sin ora stenta a prendere piede, del tutto italiano, non importabile sia in termini di processo che a livello di caratteristiche del mercato dell’informazione online nel nostro Paese.

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Confermato

Confermate le indiscrezioni di ottobre, ieri è stato ufficialmente annunciato l’accordo anche per quanto riguarda la versione italiana dell’Huffington Post.

Allo stato attuale delle informazioni disponibili non posso che, altrettanto, confermare la mia opinione:

L’Italia, gli editori italiani, lo dico senza mezzi termini, senza giri di parole, non hanno bisogno di questo. Non abbiamo bisogno di altre persone che vengano qui a proporre modelli di sfruttamento come dimostra la non risposta fornita durante l’intervista condotta da Antonello Piroso sulla class action dei blogger d’oltreoceano. Non ha bisogno di accordi che portino soluzioni “pret a porter”. I giornali italiani sono ben distanti dal comprendere la natura della socialità delle notizie, come conferma anche l’analisi pubblicata ieri da Vincenzo Cosenza. Il cambiamento deve essere culturale ed organizzativo, automotivato invece che importato pronto all’uso.

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Ode della Réclame

L’apparizione di Arianna Huffington, di passaggio in Italia dopo la puntata parigina per annunciare l’accordo tra «Huff Post» e «Le Monde», e il sorpasso apparentemente prossimo della pubblicità su Internet a discapito della carta stampata anche nel nostro Paese sono senza dubbio gli argomenti del giorno.

Approfondiamo.

Tra le diverse cose che A. Huffington ha detto durante la sua intervista allo IAB Forum in corso, spicca l’annuncio dello sbarco ormai prossimo anche in Italia dell’ «Huffington Post» grazie ad un accordo che seguirebbe la falsariga di quello raggiunto con «Le Monde».

L’Italia, gli editori italiani, lo dico senza mezzi termini, senza giri di parole, non hanno bisogno di questo. Non abbiamo bisogno di altre persone che vengano qui a proporre modelli di sfruttamento come dimostra la non risposta fornita durante l’intervista condotta da Antonello Piroso sulla class action dei blogger d’oltreoceano. Non ha bisogno di accordi che portino soluzioni “pret a porter”. I giornali italiani sono ben distanti dal comprendere la natura della socialità delle notizie, come conferma anche l’analisi pubblicata ieri da Vincenzo Cosenza. Il cambiamento deve essere culturale ed organizzativo, automotivato invece che importato pronto all’uso.

Anche i dati sul sorpasso nell’immediato futuro del Web sulla carta stampata vanno pesati.  Si tratta infatti di proiezioni tutte da verificare che si basano su dati parziali e che inglobano anche quella fetta di comunicazione, il search, che, come ho già sottolineato, non portano nessun vantaggio al comparto editoriale indifferentemente che sia “tradizionale” o “digitale”.

Quel che è certo invece è che nel nostro Paese vi sia uno dei rapporti più bassi tra adverting/pagine viste e utenti come illustra chiaramente la tavola di sintesi sottoriportata.

Ben vengano spunti, stimoli e, perchè no, incitamenti all’adozione di un mix di comunicazione che includa anche la Rete nel suo insieme, l’importante è che non si trasformino in un ode della réclame pour cause, l’effetto boomerang sarebbe in questo caso assicurato.

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Il Valore dei Blog dell’Huffington Post

La cessione dell’Huffington Post  ad Aol ed il valore della transazione, hanno scatenato il risentimento e la protesta da parte dei blogger che contribuivano gratuitamente al “superblog” statunitense.

Vista l’enorme somma ricavata dalla vendita, Arianna Huffington è stata richiamata ad ossequiare i propri principi e le dichiarazioni effettuate nel tempo chiedendo a gran voce una compensazione per il lavoro svolto, come segnalato anche dal quotidiano torinese.

Visto l’eco della notizia e l’interesse al tema generale, che si lega complessivamente al filone del crowdsourcing, il NYT ieri ha prodotto un’analisi esaustiva che quantifica concretamente il valore economico dei blog dell’Huffington Post.

Nell’articolo viene identificato specificatamente il peso dei blog, analizzando il numero di pagine viste sul totale ed i commenti [e dunque la partecipazione dei lettori] per arrivare a quello che potrebbe essere il valore in termini di ricavi pubblicitari.

Ne emerge un rapporto di 1 a 20 tra gli articoli retribuiti e quelli gratuiti di “blogger” che darebbero luogo a revenues pubblicitarie nell’ordine di poco più di 6 US $ ogni mille pagine viste.

Se, da un lato, permane la difficoltà di quantificare il valore delle professioni intellettuali, dall’altro pare confermarsi allo stato attuale la necessità di una massa critica di utenti  per ottenere una sostenibilità economica all’informazione online nelle sue diverse forme.

Sino a quando non saranno rivisti e rielaborati in maniera condivisa i criteri di remunerazione, attualmente basati solo su parametri quantitativi,  la qualità continuerà ad essere opinabile accessorio all’interesse prevalente per le masse.

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Ricavi Virtuali

L’ottimo lavoro svolto da Massimo Russo relativamente ai possibili ricavi del Post ha richiamato immediatamente la mia memoria all’intervista che Arianna Huffington, co -fondatrice del famoso giornale on line statunitense al quale il quotidiano fondato da Sofri si ispira a partire dal nome, ha rilasciato a fine luglio a Newsweek.

Nell’ articolo la Huffington, rispondendo alle domande del suo collega del celebre settimanale economico, dopo aver effettuato un interessante excursus sul futuro del giornalismo e lo scenario [anche pubblicitario] digitale, rivela i numeri del quotidiano da lei diretto.

Secondo quanto dichiarato, il 2010 sarebbe finalmente l’anno, a cinque anni dal lancio, con ricavi positivi per la testata statunitense. In particolare emerge che l’Huffington Post è stato visitato da 24,3 milioni di utenti unici nel giugno 2010 e che la previsione di chiusura per quest’anno dovrebbe assestarsi intorno ai 30 milioni di dollari di ricavi. Se non vado errato significa orientativamente un dollaro all’anno di ricavi per ciascun lettore.

Come osserva Zambardino, pare davvero che le iniziative editoriali on line non mainstream facciano davvero fatica a trovare uno modello sostenibile dovendo lottare, tra l’altro, con un considerevole vantaggio dei brand che nascono dall’off line.

Seppure sia difficile, ed erroneo, trarre delle conclusioni generalizzate, personalmente ritengo che nel nostro paese le prospettive di successo, in chiave economica, a breve-medio termine siano davvero ridotte anche per i main players.

La ricerca di una Arianna Huffington italiana passa attraverso numeri e percorsi che sono davvero a lontani dal venire. I ricavi sono ancora virtuali.

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