Social Media o Distribuzione Sociale dei Mass Media?

La puntata di “Report” di ieri sera, con il servizio principale dedicato ai pericoli di Facebook e della Rete, ha sollevato un diluvio di commenti, prevalentemente negativi, sul taglio dato all’argomento, come sintetizza, non senza qualche inesattezza, l’Unità.

Il caso favorisce e richiede una riflessione.

Due sono fondamentalmente gli aspetti che questa vicenda evidenzia con chiarezza e che possono essere d’insegnamento per chi si occupa a vario titolo di media.

1) Il consumo televisivo non è in crisi ma addirittura in aumento nel nostro paese come dimostra la recentemente elaborazione della Nielsen.  E’ una tendenza che non riguarda esclusivamente il nostro paese nè le fasce di età più avanzata della popolazione ma è presente anche in età adolescenziale e pre-adolescenziale.

Il trend effettivamente crescente è quello della fruzione contemporanea di più media con tutti i rischi di deficit di attenzione che il multitasking comporta.

2) Chi vive la Rete con intensità, per passione o professione, spesso crede di vivere nell’era dei social media; epoca nella quale chiunque può essere giornalista, pubblicare contenuti, minacciando così lo strapotere dei media tradizionali.

Le ultime ricerche ed i dati più recenti sembrerebbero confermare invece la leadership dei mainstream media.

E’ una tendenza che Tom Foremski, autorevole [ex] giornalista del Financial Times, ha riassunto con l’acronimo di SoDOMM [The Social Distribution of Mass Media] e che l’ampiezza delle maglie del paywall del New York Times pare ulteriormente attestare.

L’attuale fase pare dunque essere nella realtà prevalentemente di distribuzione sociale dei mass media.

Se questa sia una fase transitoria verso la piena maturità dei social media o se prevarranno i poteri forti della Rete era il taglio che la indiscutibile professionalità della Gaibanelli avrebbe potuto [dovuto?] dare alla puntata di ieri sera.

7 commenti

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7 risposte a “Social Media o Distribuzione Sociale dei Mass Media?

  1. La trasmissione di Report è stata fatta per un pubblico televisivo con qualche infarinatura di web (io lo chiamo un uso “primordiale” della rete), ovvero la stragrande maggioranza degli italiani.
    Il media mainstream televisivo per ora determina il palinsesto anche dei social media. Porto una dato su cui riflettere: in Italia, tra chi posta i video, è maggiore il numero di chi condivide video di trasmissioni televisive, mentre è bassissima la percentuale – rispetto ad altri paesi – di chi pubblica video auto-prodotti.

  2. paolo arcari

    Il messaggio principale del programma della Gabanelli credo sia : la sicurezza dei propri dati inseriti sui social media è bassissima, i social direttamente o tramite sviluppatori esterni di giochi usano i dati personali per data base da vendere alle aziende per campagne pubblicitarie non autorizzate.
    Questo al di là del linguaggio di nicchia usato nel suo articolo dove distribuzione sociale dei mass media compete con il primato dei social media.

  3. Report sui Social network è un’occasione persa. Un sì e un no. Sì, è necessario informare sui pericoli e i trabocchetti che si annidano sotto il rassicurante volto blu di facebook. No, quella critica preconcetta, quell’approccio scandalistico nell’attaccare un servizio di una società privata che, legittimemente, per mestiere, cerca di fare più soldi possibile, è inopportuno e fastidioso. Il servizio sui Social network di Report domenica sera, secondo me è, più che altro un’occasione persa. E’ indubbio che sul social blu ci siano navigatori poco esperti, tanti ragazzi e che quindi sia necessario, anzi fondamentale, una campagna d’informazione per far sì che di Facebook, e dei propri dati sensibili, si faccia un uso oculato e intelligente e chi si iscriva al Network sappia esattamente cosa sta accettando e lo faccia in maniera assolutamente consapevole. La trasmissione poteva e doveva essere proprio questo: un momento di approfondimento e informazione di grande, grandissima utilità.

    Cosa diversa è però condire il tutto con una preconcetta posizione critica verso quella che è e rimane una società privata al cui servizio nessuno è obbligato ad aderire. Chi lo fa lo sceglie liberamente (e qui torna la necessità dell’informazione): manca la trasparenza? Ci sono troppi trabocchetti? può essere ma allora informiamo e basta. D’altronde sfido chiunque a trovare una società privata a non tentare di trovare qualsiasi mezzo lecito per massimizzare i propri profitti. Sta alle autorità di regolamentazione del mercato intervenire e regolamentare, sanzionare, punire. Ai giornalisti segnalare, scoprire, informare ma senza preconcetti che sanno un po’ troppo di ideologia.

    Se a questo poi aggiungiamo il servizio trionfalistico riservato ai coraggiosi colleghi di Lettera 43, i dubbi aumentano ancora. MAssimo rispetto per Paolo Madron, Nadia Anzani e gli altri ma siamo davvero sicuri che i dati e il taglio da “successo editoriale web dell’anno” siano davvero aderenti alla realtà? Per esempio, sugli utenti unici (basta un qualsiasi servizio di monitoraggio dell’utenza web) i dati sembra siano un po’ diversi….

  4. bell’analisi. Grazie. Daniele, io la penso esattamente come te: un’occasione persa. Giusto mettere in guardia, fare cultura, ma non solo cultura della diffidenza. Come ho scritto, ci sono rischi ma ci sono anche grandi opportunità, che prima non esistevano. Chi ha messo insieme il servizio credo che ne sappia davvero poco di cultura digitale. e se ne sa è doppiamente colpevole.

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