Archivi del mese: giugno 2013

Gli Italiani Sono Poco Social?

L’Office for National Statistics, l’equivalente della nostrana ISTAT per il Regno Unito, ha pubblicato le statistiche sul social networking in Europa basandosi su dati propri e su quelli di Eurostat.

E’ importante segnalare come per social networking si intenda la definizione più ampia del termine che comprende inviare messaggi a siti di chat, siti di social networking, blog, newsgroup, forum di discussione e l’uso di instant messaging. 

Dai dati emerge come l’Italia sia la nazione con il minor utilizzo di social network, nella accezione sopra riportata, di tutta Europa. Non solo, ma pur avendo un’elevata penetrazione di smartphones anche per quanto riguarda l’utilizzo di social network da mobile ci attestiamo al fondo della classifica sotto Bulgaria e Grecia.

Se certamente il dato nasce dalla bassa penetrazione di Internet in generale rispetto al totale della popolazione del nostro Paese rispetto alle altre nazioni, non ne va comunque trascurata la portata ed il significato di arretratezza sia in termini di infrastrutture che culturali, come dimostra, anche, la relativamente bassa penetrazione [esattamente la metà della media UE] anche per quanto riguarda la fascia di età 16-24 anni.

Per chi vive la Rete con intensità, come tra gli altri il sottoscritto, un richiamo alla realtà nazionale di quando in quando è tanto doloroso quanto necessario.

socialnetworkinggraphic

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Il Difficile Cammino Verso la Nuova Normalità dell’ Ecosistema dell’ Informazione

E’ stato pubblicato la scorsa settimana “The new normal for news. Have global media changed forever” titolo scelto per la sesta edizione del rapporto annuale di Oriella-PR-Network, realizzato per la prima volta nel 2008, che offre una fotografia dell’utilizzo dei social media e delle tecnologie digitali nel mondo dei media.

Nella mia rubrica per l’European Journalism Observatory ne sintetizzo le principali evidenze emergenti fornendo la mia chiave di lettura dei risultati.

L’articolo si intitola “Il nuovo avanza ma a fatica” ed offre, credo davvero, un’interpretazione dei dati forniti dal network mondiale di pubbliche relazioni abbastanza diversa da quelle che ho letto in questi giorni al riguardo.

Se avete voglia di dirmi cosa ne pensate, come sempre, comment is free, qui o lì, o altrove dove meglio vi pare.

Buona lettura.

Oriella Infografica

Bonus track: In tema, sulle tendenze evolutive in corso, consiglio caldamente la lettura del pezzo di David Carr: “Big News Forges Its Own Path” che si chiude così:

Whether it’s dodgy video that purports to show a public official smoking crack or a huge advance in the public understanding of how our government watches us, news no longer needs the permission of traditional gatekeepers to break through. Scoops can now come from all corners of the media map and find an audience just by virtue of what they reveal.

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Ridefinizione del Mercato Pubblicitario Online

Si parla molto delle opportunità offerte dalla forte crescita del mercato pubblicitario online, anche se i dati che riguardano l’Italia non sono esattamente entusiasmanti, e ancor più, se possibile, in particolare di un grandissimo sviluppo dell’area legata all’utilizzo di internet in mobilità.

Secondo quanto pubblica eMarketer Google da solo detiene il 53% del totale mondiale degli investimenti in advertising mobile in tutto il mondo e le proiezioni per fine 2013 innalzano ulteriormente la quota portandola a quasi il 56%. Quota che congiuntamente a quella di Facebook [13%] fa si che oltre due terzi del mercato siano in mano a due soggetti.

Net Mobile World adv

Leggermente migliore ma concettualmente uguale la situazione per quanto riguarda l’insieme della pubblicità online dove la quota di Google arriverà al 39% mentre quella di Facebook dovrebbe raggiungere il 6% per un totale del 45% di tutto l’advertising online mondiale.

Quando la metà, o più, del mercato è in mano a due soggetti [dei quali non si ha “il piacere” di conoscere lo spaccato per nazione] ha ancora senso parlare di mercato pubblicitario online ed esaltarne la crescita?

Forse è giunto il momento di una ridefinizione di cosa sia effettivamente advertising online e di quali siano le reali opportunità per gli editori.

Net Online Adv World

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L’Edicola che non c’è e le Copie Digitali

A marzo 2102 fu annunciato in pompa magna il lancio di Edicola Italiana, piattaforma multi-editore per offrire online in un unico sito le diverse testate. Inizialmente la piattaforma avrebbe dovuto ospitare sia quotidiani che periodici di quattro editori passati poi a sei alla fine dell’anno scorso quando si tornò a parlare del progetto. Di fatto, ad oggi, non si hanno notizie del livello di avanzamento e se sono occorsi 9 mesi per giungere dalle dichiarazioni di intenti alla creazione del consorzio, e complessivamente sono passati 15 mesi, è facile immaginare che i tempi non siano brevi.

Personalmente, tra febbraio e marzo di quest’anno, ho provato a contattare alcuni dei membri del consiglio di amministrazione del consorzio Edicola Italiana per inserirne le prospettive nel mio libro “L’edicola del futuro, il futuro delle edicole. Ovvero che fine farà la carta stampata” ma dopo un lungo tergiversare non ho avuto, ahimè, il piacere di ottenere risposte.

Nel frattempo, come noto, da gennaio di quest’anno ADS ha iniziato a pubblicare i dati delle copie digitali di quotidiani e periodici. Se per i periodici, escludendo gli inserti allegati ai principali quotidiani, i volumi di vendita sono marginali così non è per i giornali, o almeno per alcuni di essi.

I primi cinque quotidiani per vendite realizzano l’86% del totale mostrando una concentrazione di gran lunga superiore a quella della carta stampata. Da quando sono stati resi disponibili i dati le vendite di copie digitali sono passate da 188mila a 242mila con un incremento del 28.7%.

«Il Sole24Ore», primo quotidiano per numero di copie digitali vendute, ha registrato nei primi quattro mesi di quest’anno un incremento del 56% e ad aprile il peso di questo formato è del 26.8% sul totale delle copie vendute [edicole + abbonamenti].

Peso quasi doppio rispetto a «Il Corriere della Sera», che cresce del 34%, e di «la Repubblica», che invece cresce “solamente” del 6.7%. Anche se i valori assoluti sono inferiori rilevante la quota di copie digitali anche per «Il Fatto Quotidiano» con un peso del 16.7% sul totale delle copie vendute ed il “fenomeno” di «L’Unione Sarda» con oltre 7mila copie [+12.7% vs gennaio 2013] per un peso del 13.8% sul totale. Per tutti gli altri quotidiani le copie digitali restano assolutamente marginali.

Il grafico, realizzato da Human Highway,  con l’evoluzione delle vendite delle copie digitali nel primo quadrimestre di quest’anno, mostra a colpo d’occhio le dinamiche evolutive.

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La Metà dei Soldi che Spendo in Pubblicità è Buttata Via

“So che metà dei soldi che spendo in pubblicità è completamente buttata via. Il problema è che non so quale metà sia.” Che sia stato John Wanamaker o Lord Leverhulme a pronunciarla, questa frase citatissima è diventata nel corso del tempo sempre più una verità. Oggi ahimè ne abbiamo una conferma nei fatti e nei dati.

Secondo quanto riporta il «The Wall Street Journal» da un’indagine condotta da comScore tra maggio 2012 e febbraio di quest’anno emerge che il 54% dei banner non viene visto dalle persone. Come specifica il prestigioso quotidiano economico-finanziario, non bisogna confondere non essere visto con ignorato. Gli annunci in questione semplicemente non sono stati visti grazie all’utilizzo di tecnologie che ne inibiscono la visione, quali ad esempio Adblock, per le abitudini dell’utenza, delle persone, o per frode.

Adesso abbiamo la certezza, purtroppo e per fortuna, che la metà dei soldi investiti in display ads è buttata via. A voi la scelta.

Banner

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Le Pagine Viste Sono Morte

Che le pagine viste siano morte è una tesi che circola sempre più insistentemente. Dopo Paps Shaikh, General Manager Europa di Say Media, in una interessante disamina su come le pagine viste, il parametro attualmente più utilizzato come metrica per la vendita pubblicitaria online, non siano un indicatore di qualità, non siano indice da tenere in considerazione nè per gli editori nè per gli investitori pubblicitari, per le aziende, è ora Sam Slaughter, Vice Presidente di Contently ad affermarlo.

Nell’articolo pubblicato su «Digiday» spiega, o forse per meglio dire ricorda, che:

Inseguire le pagine viste è quasi universale nel mondo dei media digitali, e porta ad una esperienza utente quasi universalmente schifosa. E alla fine della giornata alienare le persone che vuole raggiungere non è certo l’uso più efficace di investire dollari di pubblicità per una marca. Solo perché qualcuno ha visto un annuncio non vuol dire che è piaciuto, e sicuramente non significa che gli sia piaciuto il marchio che ha pagato per questo.

[……]

I brand si stanno rendendo conto di questo, e  stanno spostando i loro investimenti pubblicitari lontano da banner pubblicitari e verso i contenuti originali di qualità. Gli editori che hanno costruito il loro business e le strategie editoriali intorno banner e pagine visualizzate a buon mercato sono costrette rivedere questo approccio o corrono il forte rischio di essere lasciati indietro.

A questo si aggiunga che negli Stati Uniti [ma forse anche in Italia?] in molti casi si ricorre a “siti specializzati” nel fornire traffico. Sul tema era già intervenuto Mike Shields che dalle colonne di «Adweek» aveva parlato da metà marzo in poi  dell’argomento segnalando alcuni “ghost site”, siti fantasma  che popolano la Rete con i BOT per arrivare a quantificare quella che di fatto è una frode in 400 milioni di $ identificando in particolare sei siti responsabili.

Oltre agli effetti disastrosi sulla qualità dell’informazione online che la logica delle pagine viste ad ogni costo, pur di monetizzare, implica, è il modello di vendita stessa a dover cambiare.

Se fino ad oggi gli editori, e le loro concessionarie di pubblicità, sono state prevalentemente venditori di colonne e poi di pixel è giunto adesso il momento di trasformarsi in consulenti di comunicazione nel senso proprio del termine. Si tratta di una tendenza già in atto che sta divenendo anche ulteriore elemento per generare ricavi addizionali.

Se posso dirlo è un percorso da adottare ora o, forse, mai più.

always wayting

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Le 30 Media Companies più Importanti al Mondo

ZenitOptimedia ha pubblicato in questi giorni i risultati di “Top Thirty Global Media Owners” classifica delle più grandi aziende dei media di tutto il mondo per fatturato.

ZenithOptimedia definisce come entrate media tutte le entrate derivanti da attività che supportano la pubblicità, non solo la raccolta pubblicitaria stessa in senso stretto. Alcune aziende della lista sono interamente focalizzate sui media, altri sono colossi aziendali per le quali le entrate dai media costituiscono solo una piccola parte del loro fatturato complessivo,  per queste ultime viene conteggiato solo il reddito derivante dai media ai fini della classificazione. Ciò fornisce un quadro chiaro della dimensione e potere negoziale dei più grandi proprietari dei media nel mercato globale.

Facebook, Google, Microsoft e Yahoo! hanno generato $ 49.2 miliardi di ricavi da pubblicità su Internet  su un totale di $ 77 miliardi spesi globalmente sulla pubblicità online.  Google da solo pesa per il 49% della spesa mondiale su internet, mentre Yahoo! [in 15 ° posizione] pesa il 6%, e Microsoft [26 °] e Facebook [27] hanno entrambi un peso del 4% ciascuno. Twitter si trova al di fuori della top 30 con un fatturato di 140 milioni di $ per il periodo considerato dalla classifica. Nonostante le apparenti basse barriere all’ingresso, il mercato pubblicitario internet è altamente polarizzato e solo quattro compagnie controllano il 64% della spesa globale.

Nonostante l’aumento dei media digitali, la maggior parte dei proventi media sono generati dai media tradizionali e dalle società di intrattenimento che creano e distribuiscono contenuti. Delle prime 30 proprietari dei media globali, 22 sono società la cui attività principale è quella di attrarre il pubblico con contenuti forti, che resta fondamentale per la generazione di ricavi media. Sei dei 10 proprietari dei media sono i produttori di contenuti, tra cui terza classificata News Corporation e quarto posto Disney. Tra di loro, questi 22 ha generato 169 miliardi dollari di fatturato dei media nel 2011, o il 61% del totale generato dalla top 30.

Otto delle prime dieci società di media sono basate negli Stati Uniti, mentre le altre due sono da Europa. In totale, 16 delle società in elenco sono basati negli Stati Uniti, e nove hanno sede in Europa, con Mediaset al 22° posto, e  altre tre dal Giappone.

Top 30-global-media-owners

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Engagement del Lettore

«Slate» ha pubblicato i dati forniti da Chartbeat, società di web analytics focalizzata sul mondo editoriale, con le percentuali di lettura da parte delle persone.

Nell’articolo “You Won’t Finish This Article. Why people online don’t read to the end” sono pubblicati alcuni grafici di sintesi dai quali emerge come i lettori della testata in questione non scrollino, punto che richiama quanto sostenevo ieri sulla lunghezza delle home page di molti quotidiani online.

Emerge inoltre come mediamente venga letto il 50% del contenuto testuale di un articolo mentre nella stragrande maggioranza dei casi vengono visti integralmente i contenuti che hanno la presenza di video e/o foto.

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L’autore dell’articolo si preoccupa profondamente del deficit di attenzione da parte delle persone e mostra, con altri grafici, come vi sia una bassissima correlazione tra la condivisione di articoli su Twitter e la loro lettura completa dimostrando, o forse per meglio dire confermando, che ahimè la maggioranza delle persone non legge ciò che poi condivide, segnala ad altri.

L’effetto negativo di Internet sull’attenzione è un fatto sufficientemente noto ma è opportuno andare al di là di questo aspetto per riflettere su cause e concause di questo fenomeno per quanto riguarda l’informazione.

I dati, come sopra citato, mostrano come elementi di multimedialità forniscano un contributo fondamentale alla lettura completa dei contenuti.  Il caso di “Snow Fall” del «The New York Times», che ha ottenuto recentemente il premio Pulitzer per la sua narrativa evocativa, è il miglior esempio di integrazione multimediale.  Troppo spesso si afferma che la lettura online è veloce e che dunque gli articoli devono necessariamente essere brevi. Affermazione che probabilmente nasce da una confusione che non è solo di linguaggio tra veloce e distratta, tra disinteressata [nel senso di non interessata, non interessante] e coinvolta.

Inoltre, secondo uno studio condotto dall’ University of Bristol e dalla School of Journalism della Cardiff University pubblicato a fine 2012, i giornali soffrono di un deficit di leggibilità e chiarezza. La missione dei giornalisti è rendere comprensibile ed avvicinare i lettori all’informazione senza rinunciare alla profondità, anzi, aumentando però al tempo stesso la comprensione e riducendo il più possibile il rumore di fondo che assopisce l’intelligenza ed il giudizio del pubblico.

Il problema non è che le persone sono distratte, il problema è che evidentemente la maggioranza dei giornali non è in grado di interessarle, di coinvolgerle. E’ questo l’aspetto sul quale è necessario focalizzare l’attenzione.

eyeglasses

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Ripensare l’Home Page dei Quotidiani Online

Le home page di molti quotidiani online sono “infinite”, molto lunghe, poichè gli viene attribuita una grande rilevanza sia in termini di attrazione che, di conseguenza, per il posizionamento degli annunci pubblicitari e la relativa monetizzazione.

Se già la mia analisi relativamente ai quotidiani nazionali mostrava come il peso della home page fosse inferiore rispetto a quanto si potesse comunemente pensare, come parrebbe confermato dal neo approccio di Reuters al riguardo, emergono ora al riguardo ulteriori evidenze che vale la pena di considerare.

Una ottima sintesi sul tema viene offerta da Garrett Goodman che ricorda come in realtà siano sempre più i singoli articoli, in funzione delle ricerche e delle condivisioni sui social network, e non la home page, il primo punto di accesso. Evidenza in base alla quale moltissimi quotidiani online, a partire dal «The New York Times» stanno ridisegnando il loro sito.

La concezione di prodotto, che partiva culturalmente dalla prima pagina del giornale cartaceo, parrebbe dunque perdere sempre più valore. Inoltre, nella mia interpretazione, questo aspetto suggerisce come possa essere di gran lunga più interessante valorizzare, vendere, il singolo articolo invece che il quotidiano nella sua integrità basandosi ancora una volta sull’esperienza del cartaceo.

Anche il Rapporto annuale – “Global Entertainment and Media Outlook” – di PricewaterhouseCoopers, tra i diversi aspetti evidenzia come nonostante l’adozione sempre più massiccia dei paywall il fatturato dei quotidiani Usa continuerà a diminuire fino al 2017.

Il cambiamento nel paesaggio dell’ industria dei giornali, con il drastico calo nella raccolta pubblicitaria della stampa, sta accrescendo il peso dei ricavi dalla diffusione all’ interno della torta complessiva delle entrate come mostra anche lo studio annuale “La Stampa in Italia” [ 2010-2012], curato dalla Federazione Italiana Editori Giornali presentato in questi giorni.

E’ necessario ripensare l’home page dei quotidiani online e, soprattutto, ridefinire i criteri di valorizzazione dei contenuti che davvero non possono essere approcciati secondo la stessa concezione del cartaceo.

1-giornali

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Questo NON è un Blog

Ci sono termini che vengono usati convenzionalmente sino a perdere il loro significato divenendo una “parola scatolone”, un  termine che vuol dire tutto e nulla per quanto è vago. Uno di questi termini è sicuramente blog e, peggio ancora, il suo derivato blogger, colui che, come noto, scrive, appunto, un blog.

Si stima che i redattori di “blog” che pubblicano “post” [iniziamo a virgolettare questi termini] in modo continuato in Italia, sarebbero circa 500mila, una popolazione enorme che, per le ragioni più diverse, ha voglia di esprimersi e di entrare in relazione con altri a distanza, su Internet.

Originariamente, l’insieme dei comportamenti e del lavoro in Rete di queste persone costituiva la “blogosfera”, termine usato per la prima volta undici anni fa dall’inglese Brad L.Graham per denotare il sistema aperto e interconnesso di “blog”, che viene configurato progressivamente dai “blogger”: un sistema che produce conoscenze in quantità superiori a quelle generate finora dall’umanità nei millenni passati.

Oggi i “blog” sono un format editoriale al quale attingono ampiamente gli editori tradizionali per fare traffico, per portare visite ai loro siti web, ed i giornalisti per diletto o, più spesso, per migliorare la loro visibilità e reputazione. Questa galassia di produttori e consumatori di informazioni , di organizzazioni sociali rette dalla comunicazione, appare come un medium davvero globale, che, in chiave corporate, può diventare utile per veicolare commerci di massa e fidelizzare consumatori o per trasmettere modelli di comportamento pubblico e ottenere consenso dai cittadini, su vasta scala.

I  “blogger” da sempre sono soggetti che prestano opera gratuitamente per ottenere al massimo collanine e perline, et similia, quando si prestano ad azioni di comunicazione aziendale, o “visibilità” quando, appunto, scrivono gratuitamente, all’interno di testate registrate quali, uno per tutti, l’Huffington Post.

E’ per questo che, come avrà notato chi ha la pazienza di leggere quotidianamente ciò che scrivo,per questo spazio alla definizione di blog personalmente privilegio da anni quella di T.A.Z, di zona temporaneamente autonoma, concetto introdotto nel 1991 nel libro di Hakim Bey che descrive la tattica sociopolitica di creare zone temporanee che eludono le normali strutture di controllo sociale, poichè, credo davvero di poter dire, all’interno di “Il Giornalaio”, con la dovuta attenzione alla legge, scrivo ciò che voglio, quello di cui ho voglia di parlare e che mi appare interessante condividere senza prestarmi a “marchette” di sorta come ho avuto modo di spiegare, di ribadire, anche nella mia intervista contenuta in questo libro degli amici Daniele Chieffi, Claudia Dani e Marco Renzi di recentissima pubblicazione.

Ancor meno sono un “blogger”. Il mio lavoro credo sia noto, anche se poi talvolta mi trovo appiccicata questa definizione, non è fare blog, io di professione faccio altro.

In un momento nel quale content curation sta divenendo una delle tante “buzzwords” usate, ed abusate, con una grande maggioranza di soggetti che immaginano che la cura dei contenuti sia fare copia-incolla di pezzi di articoli, o immagini e video, altrui su Scoop.it o altre piattaforme simili, credo che il termine blogger possa finalmente essere sostituito da content curator, o curatore di contenuti se si preferisce una volta tanto l’italiano, poichè è questo che i migliori fanno, una selezione accurata di contenuti che vengono riaggregati e commentati, rielaborati in nuove forme e contenuti.

Per concludere questo mio ragionamento vorrei anche sottolineare che a mio avviso i “post” sono quelli che si mettono sulla bacheca di Facebook ed altri social media. Il termine post attribuito ai contenuti prodotti per una TAZ è inadeguato, frutto di un classismo culturale atavico secondo il quale gli articoli li scrivono i giornalisti che nell’era dell’informazione partecipata non ha più senso di esistere.

Questa è una TAZ, io, per hobby, per curiosità intellettuale, ed anche per lavoro fuori da confini di “Il Giornalaio,” curo contenuti e scrivo articoli,

Questo NON è un blog, i blogger NON esistono, era un po’ che volevo dirlo. Comment is free!

perché-ho-aperto-un-blog

Si ringrazia l’amico Massimo Gentile per la realizzazione in esclusiva dell’immagine sopra riportata

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